martedì 19 settembre 2017

Le nuove scritture working class


Articolo da Giap - Il blog di Wu Ming
di Alberto Prunetti *


Primo antefatto. Respira e intona il mantra: «Class is not cool»


Un libro racconta la storia di un educatore precario, figlio di un operaio di una fonderia. Padre e figlio si incontrano a parlare il sabato pomeriggio allo stadio. Come viene descritto quel romanzo inglese in Italia? Come un libro sul calcio. Ma in realtà quel romanzo è un racconto sulla classe operaia. Sulla working class inglese, che notoriamente attorno alla birra, al pub e al football aveva costruito elementi di convivialità e socialità. Dopo la fabbrica, ovviamente, ma quella era già stata smantellata. Così in Italia si adotta come un libro sul calcio quello che invece è un romanzo che racconta una classe sociale. La working class inglese.
Guai infatti a parlare di classe operaia. Ripetere tre volte il mantra ad alta voce: la classe operaia non esiste – la classe operaia non esiste – la classe operaia non esiste. Poi comprare su una piattaforma on line una penna usb assemblata in una fabbrica cinese e chiedersi quante decine di mani operaie toccano quel singolo oggetto da Shanghai a Piacenza.

Secondo antefatto. La servitù sta al piano basso, reparto «Sociologia»



Un’amica mi racconta un episodio curioso: entrata in una grande libreria di catena di Firenze, chiede una copia del mio libro Amianto, una storia operaia. La indirizzano al piano di sotto, nel reparto sociologia. Lei domanda perché non sia in narrativa. E il commesso risponde: perché c’è scritto «una storia operaia». Aggiungerei: perché gli operai possono solo essere oggetti dello sguardo sociologico di terzi, meglio se colti e borghesi, mai protagonisti di storie raccontate con le proprie parole.

Un fatto dopo gli antefatti. Le scritture working class esistono


Appunto. Quando vuoi umiliare o attaccare un gruppo sociale, gli togli il diritto di parlare con le proprie parole. Lasci che qualcun altro lo interpreti, parli per lui o per lei. A lungo è stato così per gli indigeni, per le donne, di sicuro è ancora così per gli immigrati. Ed è così anche per gli operai. I racconti degli operai devono essere fatti da intellettuali, magari progressisti, appartenenti comunque alla classe media. Mai che gli operai possano raccontarsi da soli. Al massimo le loro storie possono essere pagine di diario o memoriali, tracce di esperienze che poi altri, intellettuali, borghesi e possibilmente maschi, interpreteranno. E invece no.

Negli ultimi anni sono stati pubblicati alcuni titoli in lingua italiana scritti da operai o da figli di operai, libri che raccontavano il mondo operaio dall’interno. Queste scritture working class non sono (solo) narrativa del lavoro. Non sono la narrativa del precariato o la nuova letteratura industriale. Sono la narrativa della classe operaia, fatta da operai o da lavoratori subalterni e sfruttati. Della vecchia classe operaia e della nuova classe lavoratrice, precaria e sfruttata.


Si può raccontare il lavoro senza fare narrativa working class. Ad esempio, raccontandolo da un punto di vista che esprime lo sguardo dell’oppressore e non dell’oppresso. Si può raccontare il lavoro senza sentirsi parte di una classe subalterna, senza raccontare il conflitto sociale. Fare scrittura working class significa soffiare sul fuoco, raccontare il conflitto, alimentarlo con le parole scritte. Storicizzare. Ritrovare fili rossi, brandelli di memorie che legano la vecchia e la nuova classe operaia.


Davvero è la nuova letteratura industriale? O un’altra corrente letteraria?


Alcune delle opere che di recente hanno trattato il tema della fabbrica o del lavoro sfruttato sono state inquadrate in un revival della letteratura industriale italiana. Io credo invece che quella stagione (legata al boom economico) sia esaurita, anche se alcuni autori forse non disdegnano quell’etichetta o ne sentono vicina l’eredità. Personalmente, la trovo problematica. Forse è solo una mia difficoltà, ma lego la letteratura industriale più allo sguardo esterno (quello dell’intellettuale progressista dell’industria olivettiana) che a quello interno (penso ad autori come Guerazzi, Di Ruscio o Di Ciala). E preferisco alla letteratura industriale italiana la narrativa working class inglese. Perché non è fatta solo di fabbrica e alienazione la vita della classe lavoratrice. Dove sono il calcio, le bevute, le risate, l’umorismo greve, le risse per futili motivi, le prese di culo? Chiedetelo agli inglesi.

Prendete Anthony Cartwright. Pensiamo a Iron Towns. Titolo da letteratura industriale italiana. Ma i protagonisti non sono operai alla catena: i personaggi umani (spesso calciatori falliti figli di fonditori) sembrano solo catalizzatori di uno sfondo, di un paesaggio industriale dove la ciminiera e il campo di calcio, quasi dismessi, rappresentano la bussola della classe operaia dell’Inghilterra del Nord. Un programma di scrittura ben condensato dall’esergo che apre il libro di Cartwright:
«Attraversiamo i nostri labirinti neri, ombre ammassate. I fuochi sono ormai tutti spenti. Noi siamo il fumo che segna il mattone. Siamo il ruggito di ferro che credevate d’aver messo a tacere. Cantiamo al metallo contorto e lungo tunnel allagati, sopra distese vuote d’acqua e campi di detriti. Cantiamo di giorni migliori.»
Senza rimpiangere il passato della letteratura industriale, scriviamo adesso l’epopea stracciona della classe lavoratrice del nostri giorni.

No, sono solo scritture operaie (but I like ’em)


Parlo di scritture operaie, pertanto, limitandomi al dato materiale dell’estrazione sociale degli autori e dei temi trattati. Parlo di scritture, al massimo di narrativa working class e non di letteratura operaia. E neanche di letteratura industriale, ossia di una corrente letteraria legata agli anni Sessanta, al boom economico, all’industrializzazione del paese, a intellettuali che descrivevano, guardando da fuori, la classe operaia. Roba lontana. Parlo di scritture operaie o scritture working class per non evocare lo spettro di una nuova wave letteraria. Non si tratta di stare dentro o fuori una scuola, di una congrega o di un gruppo di lavoro. Si tratta di stare dentro o fuori la nuova classe lavoratrice. Pertanto parlo di scritture working class per riferirmi a scritture sul mondo del lavoro con un punto di vista interno, in anni di deindustrializzazione, fatte 1) da operai o 2) da figli di operai, cresciuti e socializzati nella vecchia classe operaia, o 3) da membri della nuova classe lavoratrice precaria dei servizi, delle pulizie, della ristorazione: dalla nuova working class a cui appartengono anche i working poor e i disoccupati con o senza laurea, i cottimari dei lavori, anche cognitivi, mal pagati e i precari dei lavori a chiamata.

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Fonte: Giap - Il blog di Wu Ming


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Articolo tratto interamente da Giap - Il blog di Wu Ming



4 commenti:

  1. Non conoscevo questo libro e neanche questa corrente letteraria ma per il resto nulla cambia: se crei fastidio oggi ti nascondono, soffocano la tua voce semplicemente non esponendola non dandole eco e rilevanza, e ricoprendola di sterco letterario e televisivo che ti rincoglionisce fino a non farti più ricordare cosa volevi dire, cercare, trovare.

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    1. I temi trattati sono più attuali che mai, i diritti dei lavoratori sono stati calpestati.

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  2. Molto interessante da leggere con attenzione, perchè questa è la nostra realtà creduta sotterranea , ma invece in piena evidenza.
    Buon pranzo Cavaliere mio e un abbraccio

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