mercoledì 5 aprile 2017

Diario di una volontaria in un campo profughi



Articolo da Global Voices

Rifugiati siriani in Grecia [en, come i link seguenti, salvo diversa indicazione]. Ormai ci sono centinaia di post in blog, articoli di giornale, e testimonianze che raccontano le storie di intere famiglie che annegano in mare con la disperata speranza di una vita senza guerra e povertà. Sono certa che ci sono molte persone che sono sopravvissute alle onde feroci [it], per poi finire in condizioni disumane in campi temporanei e inumani dove finiscono di viverci per anni. Ma che sia in meglio o in peggio, non sono qui per parlare dei rifugiati, delle vite che si sono lasciati alle spalle, o come sono finiti in Grecia. Voglio parlare delle condizioni attuali e del ruolo – o della sua assenza – di chi di noi cerca di aiutarli e di porre fine a questa crisi umanitaria.

Recentemente sono stata per un paio di settimane al Ritsona Camp in Grecia, un hub di cinque ONG umanitarie e delle operazioni delle Nazioni Unite. Ritsona è una vecchia base militare situata fuori Calcide [it], capoluogo dell'isola di Eubea [it], a circa un'ora di auto a Atene. La sua popolazione è formata da due terzi circa da Siriani e il rimanente un terzo di Curdi, Iracheni e Afghani

Dignità sommersa

Una delle dure realtà difficili da capire dello stare nei campi, a parte sopravvivere, è l’assenza di rispetto per sé stessi, la dignità che è caduta così in basso che sembra sia stata divorata dalle onde prima di essere sommersa. È questo senso di dignità ripiegata che fa sì che una persona sia felice di uscir fuori dalla tenda di un caravan improvvisato che è diventato il tuo rifugio temporaneo per mesi e mesi. Il tipo di dignità che completamente persa quando la tua intera esistenza è sottomessa alla carità dei dipendenti delle ONG, che tramite la loro autorità e le decisioni che fanno per conto delle persone, insegnano ai rifugiati di accettare quel poco che hanno e di essere felici. Perché comportarsi così, quando queste persone sono già distrutte? Noi volontari veramente sappiamo sempre cosa sia il meglio per loro? Accetteremmo che altre persone prendano queste decisioni per conto nostro?

Non è un problema di libertà di scelta; non è questione di dare spazio alle persone per far sì che prendano le loro decisioni e commettano i propri errori. È questione di auto determinazione. I rifugiati affrontano ogni inimmaginabile rischio basandosi su fattori che sono di gran lunga fuori dal controllo di qualsiasi persona, solo per arrivare, miracolosamente, in un campo e sottomettersi alle decisioni di qualcun altro, a prescindere che siano buone o cattive decisioni.

Insegniamo l’inglese!” Tutti hanno bisogno e vogliono imparare l’inglese, giusto? “Compriamo dei giocattoli per i bambini” , dominando i desideri dei genitori e dei bambini stessi. Fare la fila per il cibo o per i vestiti è parte della dura realtà nell’accettare che, a causa di circostanze al di fuori dal tuo controllo, ora come essere umano vali molto meno.

I rifugiati non vogliono fare file per anni per il cibo o per i vestiti: vogliono essere trattati da umani, così come lo vuole un uomo nero nella Sud Africa dell'apartheid, o un palestinese che fronteggia l'occupazione israeliana, o una donna in qualsiasi parte del mondo. Parte del dolore è rendersi conto, mentre sei in fila, che pochi fuori dalla tua zona di guerra avranno mai la possibilità di resistere a questo o solo arrivarci con il pensiero. È la frustrazione che deriva dal fatto che ti sia offerta la non scelta di essere grato che stai facendo la fila per mangiare, o essere ritratto in una foto condivisa nei social e che faccia pena alle persone.

Forse dovremmo considerare la gestione dei rifugiati come un diritto che si sono guadagnati per sé stessi, non come una carità che abbiamo deciso di dare. Forse ci dovremmo concentrare nel permettere loro di lottare per sé stessi. Forse dobbiamo costruire una via per l’auto emancipazione, a prescindere da dove li porterà e specialmente da dove ci lascerà. Abbiamo bisogno di concentrarci sull'educarli sui loro diritti a seconda del Paese in cui vengono ricollocati, prendendoci cura della loro salute, e fornire educazione a loro e ai loro bambini.


Forse dovremmo considerarli allo stesso modo in cui vorremmo che loro ci considerassero: con dignità e rispetto per sé stessi.

Continua la lettura su Global Voices

Fonte: Global Voices


Autore: scritto da 
Mai El-Mahdy -  tradotto da Maira Mohamed

Licenza: Creative Commons License
This work is licensed under a Creative Commons Attribution 3.0 Unported License.


Articolo tratto interamente da 
Global Voices 



2 commenti:

  1. Grande testimonianza e parole che non possono non condividersi. Se si perde la dignità non si è più nulla, solo automi col sangue nelle vene che camminano senza più una speranza.

    RispondiElimina

I commenti sono in moderazione e sono pubblicati prima possibile. Si prega di non inserire collegamenti attivi, altrimenti saranno eliminati. L'opinione dei lettori è l'anima dei blog e ringrazio tutti per la partecipazione. Vi ricordo, prima di lasciare qualche commento, di leggere attentamente la privacy policy. Ricordatevi che lasciando un commento nel modulo, il vostro username resterà inserito nella pagina web e sarà cliccabile, inoltre potrà portare al vostro profilo a seconda della impostazione che si è scelta.