di Paolo Cacciari*
Questa volta non è difficile immaginare cosa accadrà a Parigi alla Cop 21. Dopo gli annunci di Obama e Xi Jimping e persino dei governi dei paesi del Golfo. Dopo i piani di disinvestimento dal petrolio di alcune grandi compagnie e i successi della green economy, questa volta la svolta ci sarà.
Aveva ragione l’economista britannico Nicholas Stern: costa di più riparare i danni provocati dai mutamenti climatici che non prevenirli. Ora, l’ex manager della Deutsche Bank, Pavan Sukhdev (Corporation 2020, Edizioni Ambiente), ha calcolato che le esternalizzazioni negative del sistema produttivo sono pari all’11 per cento del Prodotto interno lordo globale, mentre basterebbe impegnarne il 2 per cento per stabilizzare il clima. Ma ciò che davvero fa cambiare la visione delle cose agli investitori è la dimostrazione che si può guadagnare di più investendo nella riconversione e nella sostenibilità ambientale. Temo che non siano state le assennate parole di papa Bergoglio a far cambiare idea agli amministratori delegati delle multinazionali. In un mondo per un terzo saturo di merci e per gli altri due terzi tenuto in una condizione di non solvibilità nel mercato, continuare nella strada del business us usual non è conveniente.
Per rilanciare investimenti, creare profitti, accumulare risorse finanziarie servono nuovi mercati, nuovi prodotti, nuove applicazioni tecnologiche. L’ambiente è ciò che ci vuole, rappresenta la grande occasione. Gli stati sono chiamati a creare la cornice normativa imponendo delle quote di emissione (autorizzazioni commerciabili all’inquinamento) o/e carbon tax (inquina solo chi può pagare). Gli scienziati devono inventarsi tecnologie pulite da brevettare per ristabilire le gerarchie tra paesi sviluppati e “paesi in ritardo”, condannati ad esportare materie prime e ad importare tecnologie. Le imprese devono industriarsi di più nell’eficientizzare gli apparati energetici e produttivi. Insomma, ancora una volta, in barba a gufisti e catastrofisti, sarà il mercato a salvare se stesso e il pianeta Terra.
A Parigi si discuterà solo di tempi. Sarà il 2015 o il 2050 o la fine del secolo, ma la strada è segnata. Ci vorrà ancora qualche milione di profughi ambientali da aggiungere a quelli che scappano dalle guerre. Ancora qualche arcipelago del Pacifico verrà sommerso e qualche centinaio di chilometri delle coste italiane verrà eroso, ma alla fine il sole tornerà a splendere anche su Pechino e la green economy sconfiggerà la brown economy. Me lo vorrei augurare. Ma non riesco a superare una antico pregiudizio sulla possibilità che il capitalismo possa non solo umanizzarsi, ma persino naturalizzarsi. C’è una logica predatoria che sovraintende i comportamenti delle imprese capitalistiche e dei loro sistemi di governo che non gli consente di considerare il lavoro umano e le risorse naturali come beni da preservare in sè stessi. Valori assoluti e non strumenti e mezzi da immolare per la creazione di denaro.
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