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domenica 6 luglio 2025

Gentil città, che con felici auguri di Ludovico Ariosto




Gentil città, che con felici auguri

GENTIL città, che, con felici auguri,
Dal monte altier che forse per disdegno
Ti mira sì, qua giù ponesti i muri;
Come del meglio di Toscana hai regno,
Così del tutto avessi! che ’l tuo merto
Fôra di questo e di più imperio degno.
Qual stile è sì facondo e sì diserto,
Che delle laudi tue corresse tutto
Un così lungo campo e così aperto?
Del tuo Mugnon potrei, quando è più asciutto,
Meglio i sassi contar, che dire a pieno
Quel che ad amarti e riverir m’ha indutto:
Più tosto che narrar quanto sia ameno
E fecondo il tuo pian, che si distende
Tra verdi poggi infin al mar Tirreno:
O come lieto Arno lo riga e fende,
E quinci e quindi quanti freschi e molli
Rivi tra via sotto sua scorta prende.
A veder pien di tante ville i colli,
Par che ’l terren ve le germogli, come
Vermene germogliar suole e rampolli.
Sc dentro un mur, sotto un medesmo nome,
Fosser raccolti i tuoi palazzi sparsi,
Non ti sarían da pareggiar due Rome.
Una so ben, che mal ti può uguagliarsi,
E mal forse anco avría potuto prima
Che gli edifici suoi le fossero arsi
Da quel furor ch’uscì dal freddo clima
Or di Vandali, or d’Eruli, or di Goti,
All’italica ruggine aspra lima.
Dove son, se non qui, tanti devoti,
Dentro e di fuor, d’arte e d’ampiezza egregi
Tempî, e di ricche oblazïon non vôti?
Chi potrà a pien lodar li tetti regî
De’ tuoi primati, i portici e le corti
De’ magistrati, e pubblici collegi?
Non ha il verno poter ch’in te mai porti
Di sua immondizia: sì ben questi monti
T’han lastricata sino agli angiporti.
Piazze, mercati, vie marmoree e ponti,
Tali bell’opre di pittori industri,
Vive sculture, intagli, getti, impronti;
Il popol grande, e di tant’anni e lustri
Le antiche e chiare stirpi; le ricchezze,
L’arti, gli studi e li costumi illustri;
Le leggiadre maniere e le bellezze
Di donne e di donzelle, a cortesi atti,
Senza alcun danno d’onestade avvezze;
E tanti altri ornamenti che ritratti
Porto nel côr, meglio è tacer, che al suono
Di tant’umile avena se ne tratti.
Ma che larghe ti sian d’ogni suo dono
Fortuna a gara con natura, ahi lasso!
A me che val se in te misero sono?
Se sempre ho il viso mesto e il ciglio basso,
Se di lagrime ho gli occhi umidi spesso,
Se mai senza sospir non muto il passo?
Da penitenza e da dolore oppresso,
Di vedermi lontan dalla mia luce,
Trovomi sì, ch’odio talor me stesso.
L’ira, il furor, la rabbia mi conduce
A bestemmiar chi fu cagion ch’io venni,
E chi a venir mi fu compagno e duce:
E me che, senza me, di me sostenni
Lasciar, oimè! la miglior parte, il còre;
E più all’altrui che al mio desir m’attenni.
Che di ricchezza, di beltà, d’onore
Sopra ogni altra città d’Etruria sali,
Che fa questo, Fiorenza, al mio dolore?
I tuoi Medici, ancor che siano tali,
Che t’abbian salda ogni tua antica piaga,
Non han però rimedio alli miei mali.
Oltre quei monti, in ripa l’onda vaga
Del re de’ fiumi, in bianca e pura stola,
Cantando ferma il Sol la bella maga,
Che con sua vista può sanarmi sola.

Ludovico Ariosto


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