lunedì 1 gennaio 2024

Ricordiamo Giorgio Gaber



Articolo da La Fionda

Introduzione. Giorgio Gaber se ne andava ventuno anni fa, ma la sua opera sembra essere in un dialogo fitto, costante con il nostro tempo. Nel momento, infatti, in cui si richiama alla memoria un autore storico si dovrebbe sempre tenere a mente tale domanda decisiva: quale è la sua relazione con l’epoca presente – perché riattualizzarlo (anche in maniera critica). Ma con Gaber (e Sandro Luporini, suo mitico compagno di scrittura, che resterà costantemente sullo sfondo del nostro scritto) questo processo sembra in qualche modo venire da sé, spontaneamente: la loro opera, infatti, si lega, strettamente, a quello che avviene (e continua-ad-avvenire) nei nostri giorni. E questo significa un qualcosa di molto specifico: che loro, in qualche modo, hanno anticipato i tempi, come, cioè, da alcuni elementi embrionali siano riusciti ad intravedere l’avvenire, e, ancora, da alcune tracce siano stati in grado di profetizzare alcune strutture fondamentali della società contemporanea.

Gaber è, dunque, un autore critico del presente, la cui opera, tuttavia, all’interno di esso, sta come subendo un processo di cristallizzazione: da essa, infatti, si estrapolano concetti circostanziali, senza seguirne rigore e logicità del pensiero. Ci troviamo, cioè, in una situazione (solo) apparentemente paradossale: il mondo che Giorgio Gaber ha profetizzato, criticandolo, si è rivelato in tutta la sua barbarie, e, pur tuttavia, continua a tessergli le lodi. Si può quindi cantare all’interno di un talent show uno dei suoi classici – La libertà è partecipazione – in modalità che assumono le forme di un’inconsapevole parodia. Il pensiero di Gaber, dunque, nonostante un’apparente presenza nei media, sembra essersi, nei fatti, dissolto: risulta necessario un lungo lavoro di riattualizzazione (di recupero, cioè, della sua forma più dura).

All’interno di questo ricordo di Gaber, tratteremo soprattutto i suoi ultimi tre album – Un’idiozia conquistata a fatica, La mia generazione ha perso e Io non mi sento italiano (pubblicato postumo) –  al fine di mettere in evidenza, tra le altre, questa specifica problematica: mostrare come egli abbia saputo attraversare fasi storiche differenti, resistendo a quel tempo di crisi (quella frattura, ine estrema sintesi, istituitasi tra gli anni ’80 e ’90) che ha dissolto, in definitiva, vari artisti, ed intellettuali, della sua epoca. Egli, cioè, non è stato solamente figlio del suo tempo (piuttosto, la sua arte è stata in grado di rappresentare periodi storici differenti) e, allora, ci si deve chiedere: cosa è ciò che gli ha permesso di resistere, di rigenerarsi in un tempo storico avverso? Come, cioè, è riuscito a divenire estremamente attuale anche per la nostra contemporaneità? Forse – questa è la nostra ipotesi – vi era in lui qualcosa di deviante, eretico sin dall’inizio (nella sua arte come nella sua visione del mondo) che gli ha permesso, in qualche modo, di rigenerarsi: è proprio, cioè, quel seguire sentieri non battuti (il non esser integralmente immerso all’interno del suo tempo) che ha contribuito a far sì che egli potesse vedere società differenti – Giorgio Gaber appartiene, cioè, a quella rara schiera di artisti non scomparsi al tramonto di un’epoca.

A proposito del tema del rigenerazionismo, ciò che gli ha consentito di resistere è anche, probabilmente, quella stretta relazione, mai dismessa, tra opera ed esistenza: il fatto, cioè, di non esser mai falsamente ideologico, seguace passivo delle tendenze del tempo, tentando, piuttosto, di reinterpretare, e raccontare, il mondo a proprio modo, legando, sin dall’inizio, Kultur (politica), arte ed esistenza – «bisogna partire da se stessi. Io racconto me stesso, faccio un discorso esistenziale» (Gaber G. in Harari G. (a cura di), 2011, p.62). Nostro compito sarà dunque quello di approfondire alcuni questioni centrali nell’opera dell’ultimo Gaber: le tesi, tuttavia, si costituiranno come necessariamente problematiche. Prima, infatti, abbiamo parlato di impianto rigoroso, logico del suo pensiero, ma questo non significa che esso al suo interno non riveli contraddizioni, ambiguità (un certo differire): egli, infatti, è uno di quegli autori il cui rigore è necessario anche, e soprattutto, per esprimere l’incompiuto, il polivalente. Così, la messa a tema di alcuni punti decisivi gaberiani si staglierà su questo sfondo strutturalmente mobile: egli stesso amava parlare di «soluzioni aperte» (Gaber G. in Harari G. (a cura di), 2011, p. 16).

Il tutto è falso. Probabilmente in questo passaggio, che è poi il titolo del primo brano del suo ultimo album, Io non mi sento italiano, si condensa uno dei nuclei centrali della riflessione di Gaber sulla contemporaneità: l’assenza, cioè, di alcuno spazio ulteriore, la riduzione di ogni antagonismo a momento del potere, l’impossibilità, in definitiva, quasi di pensare forme di vita differenti – «questo è un mondo che ti logora di dentro ma non vedo come fare ad esser contro» (Gaber G., Il tutto è falso, 2003). In altri termini, una seconda natura che ingloba ogni elemento, al punto che si costituisce come sempre più difficile differenziare, discernere e, conseguentemente, contrapporsi, combattere: se, infatti, il tutto si presenta come un monolite unitario, compatto all’interno del quale essenziale e marginale confondono, continuamente, i propri limiti, allora è evidente come il processo dialettico rivoluzionario subisca una fortissima battuta di arresto, così come si presenta altrettanto difficile innescare fratture o lacerazioni all’interno delle strutture di potere. Il tutto è falso si costituisce anche, quindi, come la constatazione del dissolvimento di qualsiasi forma di contro-potere: ogni evento (anche potenzialmente eretico) non può – sembra – divenir parte di quella totalità lì.

Il mercato. Il problema della totalità ci riconduce al problema del mercato, centrale in tutta la riflessione gaberiana: esso, infatti, si costituisce come quel significante vuoto in grado di accogliere al suo interno i significati più contraddittori, finanche le eresie. Questo è un tema decisivo: la riduzione di ogni antagonismo a momento del mercato – «la chitarra suonava senza smettere mai ed ognuno di noi si sentiva così liberato senza rendersi conto che anche lì si imponeva la follia del mercato» (Gaber G., Il mercato, 1997-2000). Qui, una cifra fondamentale della nostra società: lo sfruttamento, in ogni campo (dallo sport all’arte, dal sociale al politico), di qualsiasi idea, ad una prima istanza negativa, deviante, e la sua conseguente immissione in un ingranaggio ben definito. Il mercato come forma-mondo da cui sembra impossibile fuoriuscire (insieme al dissolvimento di qualsiasi piattaforma esterna, o contro-potere) ci pone, così, di fronte ad un dilemma che sembra, anche ora, insolubile: «oggi un paese che rifiuta la sua logica rischia di diventare un paese povero, un paese che l’accetta con allegria rischia l’annientamento totale delle coscienze» (Gaber G., Il mercato, 1997-2000).

Capitalismo e forma di vita – note sulla reificazione. Ciò conduce alla fuoriuscita da un terreno esclusivamente economico e all’istituirsi, conseguente, di una strettissima relazione tra mercato e coscienza, capitalismo e forma di vita: «il mercato, il libero mercato, detta liberamente i tempi e i ritmi della vita» (Messner C., 2012, p.46). Qualsiasi attività umana, infatti, all’interno del mercato come forma-mondo, corre il pericolo di perdere il suo carattere originario e divenire merce, res, strumento del capitale: e cioè l’assorbimento, sempre più intenso, da parte del capitalismo di quella che, ad una prima istanza, potremmo definire (ancora in termini romantici) umanità. E, quindi, la spettacolarizzazione mediatica di qualsiasi evento, anche il più funesto: la tramutazione, cioè, del carattere del tragico dell’essere umano in merce da intrattenimento per una forma di coscienza sempre più svuotata – «nel gioco del falso e del vero qualsiasi dolore del mondo è spettacolo puro» (Gaber. G., Spettacolo puro, 1997-2000). Un processo che sembra inglobare anche quegli spazi che sembravano intatti, a partire dall’infanzia. Celebre La stanza del bambino, brano che descrive quel traumatico passaggio da un luogo mitico, spazio di purezza ed avvenire, ad un’infanzia capitalistica, che nasce immediatamente satura, gonfia, piena di «cose mai più usate, inutili disgustose, sazietà opulenza nausea» (Gaber. G., La stanza del bambino, 1997-2000). Alla stanza del bambino, ostruzione dell’avvenire, si costituisce come complementare La stanza del nonno, privazione della memoria: una vecchiaia, cioè, considerata sempre più inadeguata (non-utile) per un mondo accelerato che si nutre di costanti novità (anche se, al fondo, in definitiva, solamente apparenti): «solitudine, solitudine totale. Rintanato, abbandonato gettato via, in questo osceno chiamiamolo così, mondo così lontano da un’esistenza che lentamente, scompare totalmente ignorata, in questo porco chiamiamolo così, mondo, che continua la sua corsa convulsa, frenetica, travolgente» (Gaber G., La stanza del nonno, 1997-2000).

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Fonte: La Fionda


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Articolo tratto interamente da 
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