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domenica 9 novembre 2025

La moltitudine pensante: l’eredità filosofica di Paolo Virno


Articolo da Collettivo Le Gauche

Paolo Virno, scomparso recentemente, scrisse un libro per noi ancora fondamentale dal titolo Grammatica della moltitudine: per una analisi delle forme di vita contemporanee. Il nucleo della riflessione prende le mosse dalla riattivazione di un’antica alternativa concettuale, quella tra popolo e moltitudine, che oggi si ripropone come strumento ermeneutico decisivo per decifrare le forme della sfera pubblica contemporanea. Questa dicotomia, forgiata nel fuoco delle contese pratiche e teoriche del Seicento, dalla fondazione degli Stati moderni alle guerre di religione, vide la netta prevalenza del concetto di popolo mentre moltitudine divenne il termine perdente, espulso dal lessico politico dominante. La tesi di fondo è che, al tramonto di un lungo ciclo storico e nel pieno di una crisi radicale della teoria politica moderna, sia proprio la nozione allora sconfitta a mostrare una straordinaria vitalità, offrendosi per una clamorosa rivincita teorica.

Le due polarità hanno i loro padri putativi in Hobbes e Spinoza che le definiscono in opposizione radicale. Per Spinoza la multitudo designa una pluralità che persiste in quanto tale sulla scena pubblica, nell’azione collettiva e nella cura degli affari comuni, senza fondersi in un Uno, senza dissolversi in un moto centripeto. È la forma di esistenza politica e sociale dei molti in quanto molti: una forma permanente, non episodica o interstiziale, che egli considera l’architrave stessa delle libertà civili. All’estremo opposto, Hobbes, con un atteggiamento che Virno non esita a definire di “odio”, vede nella moltitudine il massimo pericolo per il “supremo imperio”, per quel monopolio della decisione politica che è lo Stato. Per Hobbes la sfera pubblica moderna può avere come baricentro o la moltitudine o il popolo ma non entrambi. Il popolo è un’entità unificata, dotata di una volontà unica, ed è un riverbero diretto dell’esistenza dello Stato: dove c’è lo Stato, lì si costituisce il popolo. La moltitudine, al contrario, inerisce allo “stato di natura”, è il retaggio antecedente all’istituzione del corpo politico, un rimosso che può sempre riemergere per scuotere la sovranità statale. La moltitudine, per il suo carattere intrinsecamente plurale, rifugge dall’unità politica, recalcitra all’obbedienza e, soprattutto, non trasferisce mai i propri diritti naturali al sovrano. La celebre frase hobbesiana “i cittadini, allorché si ribellano allo Stato, sono la moltitudine contro il popolo” cristallizza questa opposizione portata al suo diapason.

La domanda cruciale che sorge è come la moltitudine sia sopravvissuta all’egemonia del modello statale-popolare. La risposta è che essa è stata esorcizzata e confinata in forme dissimulate e rachitiche all’interno delle due grandi tradizioni politiche moderne. Nel pensiero liberal, l’inquietudine suscitata dai “molti” è stata addomesticata attraverso la diade pubblico-privato. La moltitudine, privata di voce e presenza pubblica, è stata relegata nella sfera del privato, inteso nel suo senso etimologico di privus, cioè “privo”, carente di rilevanza pubblica. Nel pensiero democratico-socialista un’eco dell’arcaica moltitudine risuona invece nel secondo termine della coppia collettivo-individuale. Il popolo è il collettivo, la volontà generale, mentre la moltitudine viene adombrata nella presunta impotenza e nell’irrequietezza sregolata del singolo individuo, percepito come un resto ininfluente e ineffabile.

Oggi, nelle odierne forme di vita e nella produzione materiale, si assiste a un appannamento di queste linee di confine. Le coppie concettuali pubblico/privato e collettivo/individuale “non reggono più, mordono l’aria, conflagrano”. L’esperienza collettiva e quella individuale, così come la sfera pubblica e quella privata, si confondono e si sovrappongono inestricabilmente. La moltitudine contemporanea non è più composta né da “cittadini” nel senso classico, né da “produttori” nell’accezione tradizionale, essa occupa una regione mediana e ibrida. È fondamentale sottolineare che questa moltitudine non si contrappone in modo semplicistico all’Uno, come in certa retorica postmoderna che celebra il molteplice come bene assoluto, ma lo ridetermina radicalmente. Anche i molti hanno bisogno di una forma di unità ma questa unità non è più lo Stato, il punto di arrivo di una convergenza. È, piuttosto, una premessa, uno sfondo: il linguaggio, l’intelletto, le facoltà comuni del genere umano. L’Uno da cui i molti, in un movimento centrifugo, si differenziano e persistono come tali, è un universale condiviso che autorizza la differenziazione stessa.

Per analizzare concretamente questa moltitudine Virno propone di sviluppare tre blocchi tematici, il primo dei quali è la dialettica tra paura e ricerca di sicurezza. Il modello tradizionale, da Kant a Heidegger, distingueva nettamente tra una paura determinata, legata a un pericolo circoscritto (una slavina, la disoccupazione), e un’angoscia indeterminata, provocata dalla pura esposizione al mondo nel suo insieme, dal “non sentirsi a casa propria” (Heidegger). A queste due forme di timore corrispondevano due forme di riparo: una sicurezza empirica per la paura e un rifugio assoluto, spesso di natura religiosa o morale, per l’angoscia. Questa distinzione era funzionale al concetto di popolo, legato all’esistenza di comunità sostanziali che delimitavano un “dentro” stabile e rassicurante contrapposto a un “fuori” ignoto e angosciante.

Questa netta separazione è venuta meno per tre motivi fondamentali. In primo luogo le comunità sostanziali, con il loro ethos consolidato e i loro “giochi linguistici” risaputi, si sono dissolte. Gli individui sono ormai abituati al mutamento repentino e sono permanentemente esposti all’imprevisto, vivendo in una realtà già sempre innovata. Non esiste più un “dentro” protetto, per cui ogni pericolo fattuale si colora immediatamente dei toni dell’angoscia indeterminata. Paura e angoscia si sovrappongono in un sentimento che Virno propone di chiamare perturbante. In secondo luogo questo “non sentirsi a casa propria” non è più un’esperienza solitaria e interiore ma è diventata la condizione comune e condivisa, un fatto pubblico che accomuna la moltitudine. Infine, e questo è il punto più radicale, la stessa sequenza logica timore-riparo viene rovesciata. L’esperienza originaria non è la percezione di un pericolo a cui si cerca una risposta ma è l’originario attivo procacciarsi di un riparo. È nel tentativo di proteggerci che mettiamo a fuoco, spesso retrospettivamente, i pericoli. Il vero pericolo spesso non è altro che una strategia di salvezza orripilante e velenosa (il sovrano forte, la xenofobia, la carriera forsennata). La dialettica si trasforma così in una dialettica tra forme alternative di protezione. È in questo panorama modificato che si radica l’esperienza della moltitudine, accomunata dallo spaesamento e caratterizzata da una continua oscillazione tra strategie di rassicurazione contrapposte.

La risorsa essenziale a cui la moltitudine attinge per orientarsi e proteggersi in questo mondo privo di certezze sono i luoghi comuni (topoi koinoi). Questi, nel senso aristotelico originario e non in quello moderno di banalità, sono le forme logico-linguistiche di valore generalissimo (il rapporto più/meno, l’opposizione dei contrari, la reciprocità) che costituiscono l’impalcatura di ogni discorso. Con il declino dei luoghi speciali (topoi idioi), quei codici settoriali e contestuali propri di specifiche comunità (il partito, la chiesa, il gruppo di tifosi), i luoghi comuni perdono il loro carattere di sfondo inavvertito e affiorano in superficie, diventando visibili e immediatamente utilizzabili come unica bussola disponibile. La “vita della mente”, l’intelletto nella sua forma più astratta e generica, diventa così un bene pubblico e condiviso. È qui che Virno recupera la nozione marxiana di General Intellect, l’intelletto generale che, da forza produttiva principale nel capitalismo contemporaneo, diventa anche la risorsa apotropaica della moltitudine. Si rovescia così l’analogia aristotelica tra il pensatore e lo straniero: non è più il pensatore che si estrania temporaneamente dalla comunità ma è l’intera moltitudine degli “stranieri”, di coloro che non si sentono a casa propria, a doversi comportare, per necessità, come un pensatore, facendo ricorso all’intelletto astratto per navigare la contingenza. 

Questa pubblicità dell’intelletto, questo General Intellect che diviene patrimonio comune, è profondamente ambivalente. Se non si traduce in una sfera pubblica non statale, in uno spazio politico in cui i molti possano deliberare sugli affari comuni, può produrre effetti terrificanti. Virno richiama il saggio freudiano sul Perturbante, dove la credenza nell’onnipotenza dei pensieri e la situazione fusiva della seduta spiritica esemplificano gli esiti angosciosi di un pensiero che ha un’efficacia pratica immediata ma non si articola in una mediazione politica. Nel processo produttivo postfordista, dove la condivisione di attitudini linguistico-cognitive generiche è il requisito tecnico fondamentale, questa stessa condivisione, se non diventa repubblica, si traduce in una proliferazione di gerarchie personali e infondate, in una dipendenza personale che sottomette l’intera persona del lavoratore. La pubblicità senza sfera pubblica è dunque il versante negativo e pericoloso dell’esperienza della moltitudine.

L’Uno della moltitudine non è e non può essere l’Uno statale del popolo. È un Uno di natura diversa, costituito dai luoghi comuni della mente, dal General Intellect, dal linguaggio stesso. Se la moltitudine seicentesca, erede delle repubbliche comunali, esercitava uno jus resistentiae per difendere consuetudini e prerogative locali già esistenti, la moltitudine contemporanea, pur condividendo questa logica difensiva e non rappresentativa, ha come sfondo un Uno molto più universale dello Stato ed è profondamente segnata dalla storia del capitalismo e della classe operaia. La sua peculiarità è di fomentare il collasso della rappresentanza politica in nome della ricerca di nuove forme politiche che si appropriano del sapere/potere oggi congelato negli apparati statali. Contro la tentazione di vedere nella moltitudine la fine della classe operaia Virno sostiene che essa ne rappresenta piuttosto una nuova configurazione storica. La classe operaia, in quanto produttrice di plusvalore, non scompare, è il suo modo di essere a cambiare, da popolare a multitudinario, con tutto ciò che questo comporta in termini di mentalità, organizzazione e conflitto.

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Fonte: Collettivo Le Gauche

Autore: Collettivo Le Gauche

Licenza: This work is licensed under Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International

Articolo tratto interamente da Collettivo Le Gauche


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