venerdì 3 gennaio 2025

Una manovra di tagli sociali



Articolo da GlobalProject

Ci sono voluti quasi due mesi e mezzo per approvarla e – come se non bastasse – è stato necessario il voto di fiducia in Senato per farla diventare legge. L'ultima manovra finanziaria è lo specchio di un Paese che paga altamente lo scotto di un ciclo storico i cui tre capisaldi sono: guerra, austerità, repressione. A quasi due anni e mezzo dal suo insediamento, il governo Meloni entra nel vivo del suo progetto classista e reazionario. Pertanto questa legge di bilancio fa da pendant al Ddl Sicurezza, la cui approvazione definitiva è slittata anche grazie al percorso di opposizione sociale culminato con la manifestazione nazionale del 14 dicembre, e al Ddl Lavoro che è diventato legge lo scorso 11 dicembre.

In realtà, sul piano della visione politica, questa manovra non ha nulla di diverso dalle due precedenti approvate da questo governo, che ha vivacchiato seguendo di fatto la linea tracciata da Mario Draghi. Ciò che cambia di molto, conferendole un certo livello di strutturalità, è la sua collocazione nel contesto europeo segnato dall’approvazione del nuovo patto di stabilità, che ridefinisce i margini di spesa pubblica in nome della sostenibilità del debito e della competitività internazionale. Questo quadro normativo non è ovviamente neutro: la sua essenza è ideologica, fondata su due pilastri principali. Da un lato, il blocco della spesa sociale, che viene considerata un peso più che un investimento per il futuro; dall’altro, un'integrazione sempre più marcata delle economie europee nelle logiche di economia di guerra. E non è neppure neutro il ruolo assunto dal governo italiano nel riassetto delle politiche economiche continentali. Sono finiti, per le destre nostrane, i tempi del sovranismo parolaio, dell’Europa madre di tutti i mali. L’Europa di oggi è l’Europa dove il partito di Giorgia Meloni esprime uno dei tre Vicepresidenti della Commissione e dove l’estrema destra è pronta a essere la principale stampella della risicatissima “maggioranza Ursula 2.0”.

Il nuovo patto di stabilità non si limita a imporre un ritorno alle regole pre-Covid, ma ridefinisce l’intero spazio delle politiche economiche in funzione di priorità che cristallizzano le gerarchie sociali. La combinazione di austerità e militarizzazione segna un cambiamento profondo: la spesa sociale viene sacrificata in favore di un’espansione strutturale delle spese militari, giustificata dall’espandersi della guerra globale e dalla necessità di garantire la “sicurezza” dell’Unione. Questa traiettoria riflette la trasformazione del paradigma economico europeo avvenuta in questi anni, in cui la difesa diventa un settore strategico per stimolare la crescita. Una strategia non solo ingiusta e iniqua, ma anche inefficace, perché il moltiplicatore economico della spesa militare è basso, crea poca occupazione e consolida una dipendenza strutturale dai grandi gruppi industriali del comparto difesa.

La manovra Meloni si muove in piena coerenza con questa cornice. Le spese militari aumentano del 12% rispetto al 2024 e i tagli agli enti locali e al welfare – 350 milioni di euro nel 2025 e fino a 1,5 miliardi nel triennio successivo – rappresentano il prezzo imposto dall’adesione alle nuove regole europee. A questo si aggiungono ulteriori contrazioni nella spesa sanitaria e nell’istruzione, settori già provati dalla pandemia e mai adeguatamente rifinanziati.

Uno dei provvedimenti più enfatizzati dal governo nella legge di bilancio è il taglio del cuneo fiscale, presentato come un intervento per "mettere più soldi nelle tasche dei lavoratori". Tuttavia, guardando oltre la propaganda meloniana, è chiara la natura regressiva di questa misura e la sua scarsa efficacia nel risolvere i problemi strutturali del mercato del lavoro italiano. Tra le maggiori criticità, come ha scritto di recente Andrea Fumagalli, spicca il fatto che i principali beneficiari di questa misura saranno le imprese, più che i lavoratori, grazie a una dinamica che rischia di aumentare ulteriormente i tempi per i rinnovi contrattuali. Le imprese si vedono alleggerire i costi contributivi a carico dei lavoratori senza essere obbligate a incrementare i salari netti attraverso i rinnovi contrattuali. Questa dinamica è particolarmente evidente in un contesto in cui i contratti collettivi nazionali vengono spesso rinnovati con ritardi significativi, lasciando milioni di lavoratori con stipendi bloccati a livelli pre-inflazionistici.


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Autore: redazione GlobalProject
Licenza: Creative Commons (non specificata la versione

Articolo tratto interamente da GlobalProject  


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