Articolo da La Città invisibile, rivista del laboratorio politico perUnaltracittà – Firenze
Dal 2 al 26 dicembre 2024, l’organizzazione nonprofit indipendente Committee to Protect Journalists ha denunciato le seguenti violazioni: l’esercito israeliano ha ucciso 5 giornalistə attaccando il loro veicolo (nonostante le evidenti scritte “Press”) appena fuori dall’ospedale Al-Awda, situato nel centro del campo profughi urbano di Nuseirat; 2 giornalistə sono decedutə (e altrə 7 sono rimaste feritə) durante un blitz armato messo in atto da alcune bande criminali contro l’ospedale generale di Port-au-Prince, la capitale di Haiti; 2 giornalistə curdə hanno perso la vita nel nord della Siria in un attacco contro il loro mezzo di trasporto riconducibile all’azione di un drone turco; 7 giornalistə di nazionalità turca sono statə arrestatə per aver partecipato a una protesta in seguito alla morte dellə suddettə colleghə curdə; l’editore del giornale privato The Dawn è stato trattenuto dai Servizi di Sicurezza Nazionale del Sud Sudan senza un’accusa nei suoi confronti; diversə giornalistə del canale serbo N1 hanno subìto violenze fisiche e verbali mentre mentre documentavano l’evoluzione di una manifestazione; le autorità del Guatemala hanno diffuso il mandato di arresto nei confronti di un giornalista che si trova in condizione di esilio da un paio di anni.
È innanzitutto essenziale premettere che chi fa giornalismo d’inchiesta non sta mai nel posto sbagliato: il giornalismo non è un reato e chi fa giornalismo non dev’essere mai oggetto di scambio.
Queste parole sono riprese dall’analisi compiuta da Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, il quale prosegue osservando nello specifico dell’Iran che «Le autorità iraniane hanno due pessime abitudini». La prima è «quella di considerare “minaccia alla sicurezza nazionale” ogni tentativo di comprendere cosa stia accadendo nel paese, di raccontarne le voci – soprattutto quelle libere – e di denunciare le violazioni dei diritti umani», mentre la seconda è «quella di arrestare cittadini occidentali e tenerli in ostaggio, a volte senza accusa e a volte con accuse palesemente false come ad esempio lo spionaggio per potenze nemiche, per ottenere qualcosa in cambio». E rimanendo in questo ambito, sappiamo che il caso di Cecilia Sala ha avuto una fortissima risonanza mediatica a causa della diffusione della Nota della Farnesina e delle parole di Mario Calabresi, il direttore dell’impresa editoriale per la quale Sala realizza il podcast Stories. Tralasciando le possibili ricostruzioni delle cause che hanno determinato questo accadimento, il caso della giornalista italiana fa emergere la situazione drammatica della libertà d’espressione in un regime oppressivo che detesta le donne, a maggior ragione se rivendicano autonomia, dignità e libertà.
Per non tornare troppo indietro nel tempo, basta rammentare l’approfondimento svolto dal Center for Human Rights in Iran all’inizio del 2023 riguardo ai tentativi di avvelenamento, reiterati e deliberati, di centinaia di studentesse iraniane. Gli attacchi consistevano nella volatilizzazione di composti chimici al fine di diffondere vapori tossici negli spazi di diverse scuole femminili, e ad essi è riconducibile il decesso di Fatemeh Rezaie, una ragazza di 11 anni che studiava presso una scuola di Qom – importante città a sud-ovest di Teheran. Indagini svolte da attivistə suggeriscono che questi atti violenti e intimidatori siano stati eseguiti da movimenti estremisti religiosi che, contrari all’accesso delle donne all’istruzione, vorrebbero chiudere le scuole femminili. Se le autorità iraniane non sono riuscite ad individuare i responsabili degli attacchi, i ministeri della Salute e dell’Istruzione della Repubblica islamica non hanno tardato a dichiarare uno stop all’erogazione dei servizi alle studentesse non osservanti del codice di abbigliamento previsto dalla legge. Codice ribadito a chiare lettere a metà dicembre 2024, quando è stata promulgata (anche se non ancora entrata in vigore) la nuova «Legge per la protezione della famiglia tramite la promozione della cultura della castità e dell’hijab», in virtù del cui Articolo 37 è possibile imporre la pena di morte alle donne e alle ragazze che si mostrano senza velo e promuovono forme di attivismo pacifico contro le discriminazioni a cui sono sottoposte; se questa è l’extrema ratio prevista dal codice penale islamico, le pene più leggere prevedono multe fino all’equivalente di 11000€ e condanne fino a dieci anni di reclusione.
La prigione di Evin è il “celebre” istituto penitenziario a nord della capitale dove, oltre a Cecilia Sala, sono incarcerate decine di donne accusate di essersi opposte alle imposizioni del governo di Teheran. Nell’ambito dell’approfondimento annuale BBC 100 Women, un tributo verso alcune tra le più influenti figure femminili di tutto il mondo, la BBC ha indicato diverse donne detenute nel carcere di Evin come fonti d’ispirazione del 2024. Molte si trovano ancora oggi in stato di reclusione per aver preso parte, insieme ad altre decine di migliaia di persone, alle proteste del movimento Zan, Zendegi, Azadi (Donna, Vita, Libertà) dopo la morte della ventiduenne curda Mahsa Amini a settembre 2022, quando la giovane fu vittima di percosse a seguito dell’arresto da parte della Polizia morale per non aver indossato correttamente l’hijab. A due anni di distanza dal tragico evento, Ansa riporta che secondo i rapporti dell’agenzia per i diritti umani iraniani Hrana, durante le proteste circa 500 persone, in larga parte manifestanti, hanno perso la vita negli scontri; 9 sono state impiccate a causa della loro pena di morte, mentre circa 20000 furono arrestate.
A questo proposito, riprendendo i concetti espressi dalle parole di Noury, è opportuno ricordare la fine delle speranze per la grazia (giuridica) di Niloofar Hamedi e Elaheh Mohammadi, le due giovani giornaliste iraniane che nel 2022 erano state condannate a scontare, rispettivamente, 13 e 12 anni di detenzione per aver denunciato il decesso, e aver raccontato il funerale, di Mahsa Amini; Hamedi e Mohammadi sono state scagionate dall’accusa di aver agito in collaborazione con il governo statunitense contro la sicurezza nazionale della Repubblica islamica dell’Iran, ma la loro pena non è estinta: è stata solamente ridotta a 5 anni di carcere.
Allargando l’0rizzonte delle precedenti riflessioni, si riscontra che i casi di Sala, Hamedi e Mohammadi non sono isolati. Anzi. Non si fa qui riferimento al tema specifico delle violenze riservate alle giornaliste, che può essere approfondito attraverso il paper intitolato The Chilling: global trends in online violence against women journalists – di cui in questa sede mi limito ad estrarre un passaggio da me tradotto: «Per minare la fiducia del pubblico nel giornalismo critico e nei fatti in generale, i canali della disinformazione operano attraverso abusi misogini, molestie e minacce contro le giornaliste» – bensì alla tematica più generale della libertà di parola, trattata di recente da Irene Khan, Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla promozione e la protezione del diritto alla libertà di opinione e di espressione. A fine agosto 2024, Khan ha redatto un rapporto intitolato Global Threats to Freedom of Expression Arising from the Conflict in Gaza. Premesso che sarebbe più opportuno parlare di “attacco genocida” piuttosto che di “conflitto” (così si sono espressə altrə espertə delle Nazioni Unite), e che il denso lavoro di Irene Khan si articola attraverso 114 punti, di seguito ne verrà proposta una selezione che ho personalmente tradotto.
Introduzione
1. Il conflitto a Gaza ha scatenato una crisi globale della libertà di parola. Raramente un conflitto ha messo alla prova la libertà di opinione e di espressione in modo così ampio e così distante dai propri confini.
4. In tutto il mondo sono scoppiate grandi manifestazioni di solidarietà con il popolo palestinese e contro il genocidio e l’occupazione. Sebbene in gran parte pacifiche, le proteste hanno subìto repressioni durissime in diversi paesi. Altri attori privati, come università, istituzioni culturali, enti finanziatori, persino organi di informazione, hanno adottato pratiche inquietanti come l’intimidazione, l’isolamento e il silenziamento delle voci diverse dalla proprie.
Norme giuridiche internazionali
9. Al nòcciolo di tutti i diritti umani c’è il diritto alla non-discriminazione. Esso ha due implicazioni importanti per il diritto alla libertà di opinione ed espressione; in primo luogo, tuttə hanno il medesimo diritto di esercitare la rispettiva libertà di opinione ed espressione; oltre a ciò, l’identico godimento della libertà di parola implica che questa non possa essere usata come licenza per incitare alla discriminazione, all’ostilità e alla violenza contro altre persone.
10. Consacrata dall’Articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, così come nel Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e in importanti strumenti nazionali, la libertà di opinione ed espressione garantisce il diritto di formulare opinioni senza interferenze e di cercare, accogliere e dispensare informazioni e idee di ogni tipo: vere o false, offensive o illuminate, indipendentemente dalle frontiere o dalla scelta dei media. L’Articolo 19 protegge, tra le altre cose: la libertà dei media; i discorsi a proposito degli affari politici e pubblici; la critica di funzionari governativi e delle istituzioni; l’espressione culturale e artistica.
Giornalistə sotto attacco
16. Il diritto alla libertà di opinione ed espressione costituisce la base giuridica internazionale per il godimento senza censure e senza ostacoli delle notizie prodotte dai media, e per il diritto di tuttə lə giornalistə di lavorare in sicurezza e senza timori.
A. Territorio Palestinese occupato
19. Al 13 agosto 2024, 113 giornalistə e operatorə media palestinesi sono statə uccisə, e moltə altrə sono rimastə feritə, rendendo l’attacco militare di Israele iniziato a ottobre 2023 il conflitto col più alto tasso di mortalità di giornalistə degli ultimi tre decenni. [Il dato aggiornato al 20 dicembre 2024 parla di 141 giornalistə decedutə a Gaza, ndr].
18. In base al diritto umanitario internazionale, chi fa giornalismo gode delle stesse protezioni dei civili. L’uccisione deliberata di chi pratica giornalismo è un crimine di guerra.
20. Le indagini riguardo a un incidente a Gaza in cui sono stati uccisi due giornalisti, e un altro nel Libano e in cui sono rimastə feritə diversə colleghə, hanno portato alla conclusione che l’esercito israeliano sapeva, o avrebbe dovuto sapere, che stava attaccando giornalistə.
21. L’incapacità di Israele di indagare, perseguire e punire i gravi crimini commessi contro chi pratica giornalismo non solo nega giustizia alle famiglie delle vittime, ma incoraggia chi è colpevole a continuare.
22. Le infrastrutture dei media sono considerate oggetti civili ai sensi del diritto internazionale, e pertanto sono protette dagli attacchi militari; tuttavia, si è verificata una pressoché totale distruzione delle infrastrutture dei media a Gaza. Secondo il Palestinian Journalists’ Syndicate, a partire da ottobre 2023 circa 70 strutture media, tra cui stazioni radio locali, agenzie di stampa, torri di trasmissione e istituti di formazione per giornalistə, sono state parzialmente o completamente distrutte a Gaza.
23. Nonostante le ripetute richieste, Israele ha rifiutato di concedere libero accesso ai media stranieri a Gaza. Ciò riduce la diversità dei media e influisce sulla libertà di accedere alle informazioni; di conseguenza, giornalistə locali portano il fardello di riferire cosa sta accadendo nella Striscia di Gaza. Al netto del peso psicologico della morte di colleghə, amichə, famiglie e della distruzione delle loro case, uffici e infrastrutture essenziali, hanno continuato a lavorare coraggiosamente, mettendo a rischio le loro vite per portare a termine la loro missione, sopportando le infinite difficoltà inflitte a tutti i civili a Gaza.
B. Libertà dei media altrove
27. Nell’aprile 2024 il Parlamento israeliano ha varato la «Legge sui media stranieri», la quale conferisce ampi poteri all’esecutivo per escludere i media stranieri e imporre altre restrizioni senza previa revisione giudiziaria. La Relatrice speciale ha comunicato al governo di Israele che vietare un’agenzia di stampa costituisce una restrizione non necessaria e sproporzionata della libertà di parola, ed è perciò un gesto incompatibile con gli standard internazionali sui diritti umani. L’azione non colpisce solo la libertà di espressione dellə giornalistə, ma anche il diritto del pubblico di accedere alle informazioni da diverse fonti; pertanto, dovrebbe essere riesaminata e abrogata. Nel maggio 2024 il governo israeliano ha utilizzato la suddetta legge per bandire temporaneamente Al-Jazeera, citando preoccupazioni di sicurezza nazionale legate all’incitamento e al sostegno delle fazioni palestinesi. Il divieto è stato reso permanente a seguito di un emendamento della legge.
28. Lo spazio per la libertà dei media nelle regioni del Medio Oriente è stato a lungo limitato. Dopo l’inizio del conflitto a Gaza, alcuni governi hanno reagito duramente contro lə giornalistə che hanno coperto la questioni palestinesi e israeliane. Ad esempio, la Giordiania ha applicato la sua «Legge sui reati informatici» per detenere e interrogare centinaia di individui, fra cui giornalistə, per il loro utilizzo dei social media. L’autorità egiziana di regolamentazione dei media ha bandito il portale Mada Masr per 6 mesi a causa della pubblicazione di «notizie false», e ha interrogato il suo editore a seguito della pubblicazione di un dossier che trattava lo spostamento dei civili residenti a Gaza in Egitto.
30. Il Los Angeles Times ha vietato a 38 dipendenti di occuparsi di Israele e Palestina dopo che avevano firmato un documento di condanna per l’uccisione di giornalistə a Gaza; è stato impedito a 20 giornalistə del Sydney Morning Herald e del The Age di partecipare a «qualsiasi produzione relativa al conflitto» dopo che quest’ultimə avevano sottoscritto una lettera aperta in cui si criticava il modo in cui i media australiani hanno trattato l’attacco militare israeliano a Gaza. La BBC ha avviato un’indagine su 6 giornalistə del servizio arabo per sospetta faziosità; sebbene nessunə di loro abbia violato le politiche editoriali della BBC, sono statə sanzionatə.
Repressione della protesta e del dissenso
A. Manifestazioni pubbliche
34. Diversi governi europei hanno imposto specifiche restrizioni, nella misura di divieti generali, alle manifestazioni a sostegno del popolo palestinese, giustificando le proprie azioni con motivazioni di «rischio per l’ordine pubblico e la sicurezza», così da «contrastare il sostegno al terrorismo» e «prevenire l’antisemitismo». Tali ragioni sono arbitrarie visto che equiparano ingiustamente la difesa palestinese, all’antisemitismo (o al sostegno al terrorismo); e sono pure discriminatorie, dato che nessuna manifestazione pro Israele ha incontrato particolari restrizioni.
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Articolo tratto interamente da La Città invisibile, rivista del laboratorio politico perUnaltracittà – Firenze
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