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di Valerio Valentini
Il ragazzo che cammina qualche metro
davanti a noi avrà più o meno la nostra stessa età. Si volta
ripetutamente, con nervosismo, sforzandosi di farlo sembrare un gesto
casuale; poi gira a sinistra, affretta il passo. Convinto che il buio
del vicolo lo renda ormai invisibile, si abbassa la lampo dei pantaloni e
urina contro il muro. Il muro, in realtà, è la facciata laterale della
Chiesa di Sant’Agostino, che dopo il terremoto del 1703 fu ricostruita
da Giovan Battista Contini, allievo del Bernini, e che prima del
terremoto del 2009 era conosciuta da molti, in città, soprattutto per
esser stata trasformata in un piccolo teatro.
Io e la mia amica passiamo oltre,
proseguendo lungo Corso Federico II, e prendiamo la traversa successiva,
Via Cesare Battisti, che ci immette in quella che era la Piazza della
Prefettura. Il ragazzo che ci camminava davanti resta stupito nel
vederci uscire da quella via. Si ferma, poi torna indietro, e in pochi
secondi scompare, stavolta davvero, nel buio.
«Allora, ti piace l’albero?» mi chiede la
mia amica, indicandomi un grande abete illuminato in maniera irregolare
con delle luci natalizie che dovrebbero riprodurre dei fiocchi di neve
cadenti, ma che producono uno strano effetto psichedelico riflettendosi
sull’acciaio dei puntellamenti degli edifici intorno.
«Un po’ pacchiano – rispondo – E a te piace?».
Lei alza le spalle, tenendo le mani nelle tasche del cappotto.
«Ma tutte queste gru illuminate?» rilancio.
«Ah, non lo sai? È un progetto del
Comune: durante le vacanze, tutte le gru dei cantieri del centro storico
vengono illuminate. Sembra che siano più di cento».
«E a te piace, l’idea?».
Stessa alzata di spalle di pochi secondi
fa, stessa espressione scettica sul viso: «Bah, data la situazione,
direi che non è male».
Una parte di Piazza della Prefettura
sarebbe «zona rossa», dunque inaccessibile; ma le transenne sono tutte
sbilenche, ci si sfila facilmente. Le oltrepassiamo, facciamo un giro
guardandoci attorno – guardando le impalcature che coprono la chiesa di
San Marco, i pannelli di legno usati come pezze (questa è l’immagine che
salta in mente a due profani di architettura) per tappare le crepe
dell’ex Palazzo del Governo – e stando attenti a non inciampare sui tubi
di metallo, sulle travi di legno e su altri vari attrezzi, più o meno
ingombranti, lasciati lì in attesa che riprendano i lavori. Proseguiamo
lungo Via Indipendenza, passando dietro a quella che è la nuova
prefettura: un palazzo ristrutturato con gusto moderno, che col suo
rivestimento in piastre di marmo e col suo alluminio fa quel che può per
inserirsi nella parte meridionale dei portici della città, di stile
razionalista, senza risultare un obbrobrio. Ma è soprattutto sul retro
che il rosso porpora dei suoi intonaci, la perfezione dei suoi infissi
smaltati, l’efficienza delle sue telecamere di sicurezza, provocano un
indefinibile senso di stridore, a contatto col marciume che si mangia
tutto il resto.
Giriamo a sinistra. Una passerella di
legno sovrastata da una galleria di tubi innocenti d’acciaio segna
l’inizio di Via Simeonibus. Il buio è totale, ci aiutiamo con le luci
dei cellulari.
«Ma dobbiamo per forza passare da qui? – protesta la mia amica – Sarà pieno di topi».
Si rassegna e mi segue. Avanziamo con
difficoltà, in silenzio, e quasi non ci accorgiamo di passare davanti a
dei portali in pietra, dalla forma inconsueta. Resto dubbioso qualche
secondo, poi le riconosco: sono le cancelle quattrocentesche, le vecchie botteghe che un tempo si affacciavano sulla piazza del mercato, Piazza Duomo. Si chiamano così, cancelle,
perché nella loro antica sistemazione erano protette da cancellate di
ferro, allo scopo di arginare la folla che si accalcava per poter
comprare il pesce fresco, o presunto tale, cioè quello che dal lago del
Fucino veniva portato in città dopo un viaggio non propriamente breve.
Negli anni venti del ‘900, quando sembrò sconveniente che proprio di
fronte alla cattedrale si svolgesse una così poco decorosa scena, si
decise di sostituire il mercato del pesce con un più monumentale palazzo
delle poste, che costrinse a trasferire le cancelle nella via retrostante. Via Simeonibus, appunto.
Ogni cancella ha due aperture:
una è una sorta di davanzale rialzato, che serviva come banco di
esposizione della merce, e l’altra è la porta da cui il proprietario
della bottega entrava e usciva. Le porte, però, adesso non ci sono:
dentro i locali sta riversa una massa disordinata di mobili scassati, di
scatoloni vari, di oggetti indistinguibili nel buio, tutti coperti
dalla polvere. L’odore di muffa prende alla gola.
«Esci da lì, ché non è sicuro – la mia amica mi strattona – E nemmeno questo posto è sicuro. Non è che ci stiamo perdendo?».
Proseguiamo lungo la stessa via, percorrendola fino in fondo.
«E ora? Dove siamo?».
«Dunque, ora … – mi sforzo di ostentare
una calma che non ho – Piazza Duomo non dovrebbe essere lontana. Se noi
andiamo dritti, poi dovrebbe esserci una stradina sulla destra …»
«Ma questo non è l’arcivescovado? – mi interrompe lei – Questa è Piazza Duomo».
Ci mettiamo entrambi a ridere:
attribuiamo la colpa del nostro disorientamento al buio, al freddo, alla
paura che da qualche porta sbucasse qualcosa o qualcuno. Ma sappiamo
entrambi che non è così, che in realtà cominciamo a dimenticare i luoghi
dove ogni giorno camminavamo – quasi sei anni fa. Lo sappiamo, ce lo
confermiamo a vicenda guardandoci negli occhi, ma non diciamo niente.
È sabato sera, 3 gennaio 2015: e a
L’Aquila, in Piazza Duomo, non c’è nessuno a parte noi due. Solo ora mi
accorgo dell’insistenza di un rumore che ci accompagna da quando siamo
arrivati: un ticchettio metallico, fastidioso. La neve, che nei giorni
scorsi si è depositata sui tetti, sciogliendosi gocciola sulle mantovane
dei ponteggi, quelle che servono ad evitare che qualche sasso cada in
testa ai passanti. Resto alcuni secondi con lo sguardo per aria, senza
parlare.
«Non odo parole che dici umane» scherza la mia amica, cercando di distrarmi dalla mia contemplazione.
«A te non irrita, questo rumore?» domando.
Lei spalanca gli occhi, si stringe di
nuovo nelle spalle, in un movimento quasi automatico, che mi irrita.
«Muoviamoci, ché gli altri ci stanno aspettando» si limita a dire.
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Autore: Valerio Valentini
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Caro Vincenzo, mi interessa se si parla di L'Aquila, perché andrò all'adunata nazionale degli alpini il 16 e 17 maggio, sono veramente curioso di vedere che cosa è stato fotto fino ora.
RispondiEliminaCiao e buona giornata caro amico.
Tomaso
creso che non ci siano davvero più parole per esprimere la vergogna di questa vicenda
RispondiEliminaChe gran brutta storia questa dell'Aquila. Purtroppo mi sembra ricalchi altre storie italiane.
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