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domenica 14 dicembre 2025

50 anni di Radio Popolare


Articolo da Cultweek

Compie 50 anni Radio Popolare e li celebra con una mostra da non perdere, una maratona radiofonica e un corteo domenicale. Ma soprattutto con la ricchezza di una storia in divenire e che è di tutti noi che di questa comunità siamo parte

Scrivo queste righe il 12 dicembre. Per un sacco di gente a Milano basta questo per capirsi. Come nominare Fausto e Iaio, oppure, all’estremo opposto e tanta acqua passata sotto i ponti, i due arcobaleni di una notte di maggio in piazza Duomo a festeggiare – per una volta – un sindaco sulle cui spalle avevamo caricato molte nostre speranze. Mentre scrivo la radio è accesa: ne abbiamo diverse in casa, da sempre sulla stessa frequenza. Il mio “sempre” con Radio Popolare data 1980, quando sono arrivata a Milano e ho risintonizzato sul 107,6 la mia radiosveglia rossa di tempi analogici. Erano passati cinque anni dalla sua fondazione, ne passeranno ben 45 prima del compleanno tondo che si festeggia in questi giorni con una maratona radiofonica che ha richiamato in servizio le voci ‘storiche’ e coinvolto ascoltatori e ascoltatrici in giro per il globo e con un corteo che, domenica mattina, da via Ollearo, raggiungerà la Fabbrica del vapore dove è allestita una mostra che racconta, per immagini e testi, una storia lunga 50 anni insieme unica e di tutti. È una mostra da non perdere (curatela di Giovanna Calvenzi, autori e autrici da Basilico, Berengo Gardin, Dondero, Bensi, Schirer a Laila Pozzo, a comporre un racconto corale e sfaccettato e i video meravigliosamente montati da Studio Azzurro), sia se vi sentite parte della gente di cui sopra, sia se volete capire la ragione di questo legame forte e strano che fa tesoro del passato per proiettarsi nei prossimi 50, come da slogan di quest’anno di celebrazioni.

a ragione sta in una sola parola e in diversi motivi di cui diremo, e sbaglia chi dovesse pensare si tratti solo di nostalgia degli anni giovani e del ‘buon tempo andato’. Se c’è qualcosa da addebitare all’età di chi scrive è forse il dare valore alle cose che durano, alle domande che le hanno motivate – la voce del fondatore Piero Scaramucci ricordava che in quel 1975 ci voleva una radio che parlasse a tutti e che, aprendo i microfoni, facesse parlare tutti – e a ciò che, dopo, ne è scaturito. E che va avanti, con tutti i conflitti – molti problemi, testarde opinioni e pochi soldi – ben noti a chi ha attraversato e ben conosce i vizi delle ‘famiglie’ della sinistra. E se questo qualcosa – Radio Popolare – continua ad essere la colonna sonora quotidiana di molte e molti che non riescono semplicemente a immaginare la propria Milano senza “La” radio, beh, la parola chiave è comunità. È quello che Radiopop ha continuato a rappresentare – pochissimi altri casi così longevi, nessuno così fortemente impastato con il luogo di nascita -, è quello che a me sembra prezioso e raro, nonostante tutti i nonostante che costellano la mia relazione di lunga durata con la radio e, anche attraverso di lei, con la città che ho scelto e abito. (Forse non per caso d’estate al sud si ascolta altro, più ‘nazionale’, meno popolare). È una comunità dell’ascolto e dello scambio, una comunità fisica che si ritrova in molte occasioni e non bisogna neanche ricordare, per contrasto, quale tessuto sociale sfilacciato viviamo, quante delusioni e frustrazioni politiche abbiamo accumulato, quanto poco comprensibile e angosciante appaia spesso la trama degli avvenimenti, tanto da farci dubitare delle categorie interpretative della realtà a lungo usate.

Non è poco, in tempi così smarriti, sentirsi parte di questa comunità, anche se con molti e molte tra gli ascoltatori oggi forse non prenderei neanche un caffè, anche se talvolta ascolto e mi arrabbio, ascolto e dissento, o da buona boomer rimpiango. Non è poco, e mentre in questi giorni si discute della cessione del gruppo Gedi a un armatore greco di dubbie amicizie, e io certo non mi iscrivo tra coloro che pensano che tanto tutto è eguale – no, non lo è e può anche molto peggiorare – non è poco anche avere ben chiaro che la radio bisogna farla ma farla bene. Il giornalismo professionale, anche per sue colpe, vive un’enorme crisi di credibilità e fiducia: mi ha colpito sentire Lorenzo Valera, un ex, raccontare che lui, giovane e appena sbarcato in radio, veniva chiamato a sera tarda da Piero Scaramucci che commentava la chiusura, per valutare cosa c’era da fare di più e meglio. Esserci, raccontare, analizzare, intuire, mettere a confronto fatti, opinioni, punti di vista. Prendere posizione. Essere indipendenti, grazie al sostegno di noi tutti. E cucire e cucinare il prodotto, il lavoro paziente dietro le quinte che molto spesso chi legge o ascolta non conosce e sottovaluta: sapendo da che parte stare, la radio ha camminato in questi 50 anni, usando freschezza, innovando linguaggi e format in uno sforzo collettivo di cui gli ascoltatori sono stati parte attiva e che ha avuto le sue cadute ma anche picchi di buon giornalismo. Come dimenticare i giorni di Genova, la diretta dalla macelleria messicana della scuola Diaz, giusto per fare un esempio.

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Fonte: Cultweek

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Articolo tratto interamente da 
Cultweek


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