Articolo da Lettera22
La tenda non ha porta. Né chiave. La tenda non ha neanche pavimento, né pareti. È un riparo, ed è soprattutto il simbolo di una casa che c’era, per i palestinesi, e di una terra. Distrutte le case, rubata la terra.
È maceria, la tenda. Ed è sudario la tenda, come dice la mia amica @anan.nadotti. L’ennesimo sudario che nasconde e rende esplicito lo sterminio in corso: a bassa intensità, invisibile, amplificato da una tempesta e non dagli esseri umani. Peccato che sono umani i responsabili del genocidio, e dei due milioni di palestinesi sfollati nelle tende, perché non possono vivere nelle macerie delle loro case. E se i sudari sono il simbolo di questo genocidio, del genocidio in corso, la tenda è il perdurare. È il genocidio che continua, da decenni, e che si compie sulla stessa terra. La tenda del rifugio e della nakba del 1948 mette di nuovo assieme oggi, anche nel nostro immaginario, tutti i frammenti della Palestina. Rompe la discontinuità tra Gaza e Cisgiordania, soprattutto in questo tempo in cui la Cisgiordania è persino più nascosta di Gaza.
Succede quando la terza alluvione in meno di un mese colpisce Gaza, e la tempesta di vento spazza le tende come fuscelli. L’acqua copre i tappeti di fortuna usati come pavimento, nelle tende. L’acqua piena di liquami, perché le fogne non ci sono più, così come non c’è quel mondo composito che è una città, fatto non solo di case, ma di cavi e di fogne e di asfalto.
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Fonte: Lettera22
Autore: Paola Caridi
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Articolo tratto interamente da Lettera22







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