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martedì 25 novembre 2025

Dire NO per dire SÌ alla vita



Articolo da FactoryA

Disubbidire non è solo un gesto di ribellione: è un atto di pensiero. Come ha scritto Hannah Arendt, «solo i bambini ubbidiscono; gli adulti danno il consenso. In politica e in morale non esiste qualcosa come l’ubbidienza». È per questo che dobbiamo rifiutare l’idea che la virtù civile consista nel conformarsi. Disubbidire, allora, significa assumersi la responsabilità del proprio giudizio, riconoscere che ogni scelta collettiva richiede un atto di consenso consapevole — non di sottomissione cieca, o “cadaverica” – come rispose il gerarca nazista Eichmann al giudice che lo interrogava sui suoi crimini contro l’umanità.

Perciò, disubbidire è un atto politico e morale. In una società democratica, “ubbidire” non dovrebbe proprio avere spazio. L’obbedienza appartiene al linguaggio dell’autorità verticale: quella che impone. Il consenso, invece, nasce da un processo orizzontale, dialogico, in cui i soggetti sono liberi di dire o no. Ma questo presuppone che il no sia possibile, ascoltato e rispettato.

E qui entra in gioco una delle battaglie più radicali del pensiero femminista contemporaneo. Nel corpo delle donne, nella loro esperienza storica, la differenza tra obbedienza e consenso è stata troppo spesso cancellata. Il patriarcato ha accumulato secoli di “sì” forzati, di silenzi, di adattamenti mascherati da disponibilità, di imposizioni spacciate per libere scelte.

Dire no è per le donne un fondamentale atto politico. “No vuol dire no” – non è un semplice slogan, è un gesto linguistico performativo che va oltre la sfera della sessualità: è un principio etico universale – perché finora il no di un uomo è sempre stato fatto valere ben più che il no di una donna.

Se per tutti “no vuol dire no” possiamo dimostrare che la libertà altrui si fonda anche sulla nostra rinuncia. Significa affermare, cioè, che il consenso non è mai implicito né sottinteso, mai dovuto né eterno. Che anzi il no pronunciato da una donna è, in una società patriarcale, il segno potente di un progetto e di un processo di affermazione di sé e di autodeterminazione.

Il consenso è la condizione stessa della libertà reciproca basata sul rispetto. La disubbidienza femminista nasce da qui: dal rifiuto di ruoli imposti, di gerarchie interiorizzate, di modelli di vita stereotipati obbligatori perché tramandati e naturalizzati.

Ma la sua forza non sta solo nel dire no — anzi, sta nel dire a nuove possibilità di essere e di esistere. Un sì che amplia illimitatamente le possibilità di liberazione non come autoaffermazione individualistica, ma come forma di espansione collettiva, come apertura infinita a nuove forme di vita, intese nella loro irriducibile materialità.

Uguaglianza non significa somiglianza, ma pari dignità nella differenza, anzi nelle differenze. Perché parlare oggi di genere significa parlare di libertà plurali – dunque di generi, di corpi, identità, desideri che non si lasciano più racchiudere nel binarismo eterosessuale maschio/femmina, nelle dicotomie oppositive classiche che hanno fatto della differenza sessuale l’essenza stessa di una logica manichea.

L’intersezionalità, poi, ci insegna che nessuna oppressione si comprende da sola: il sessismo si intreccia con il razzismo, il classismo, l’omobitransfobia, la disabilità. Tutte le soggettività oppresse soffrono discriminazioni multiple e sovrapposte, troppo spesso invisibilizzate e silenziate. Chiedono ora di essere riconosciute, non formalmente, ma nella loro sostanza materica ed esistenziale.

La rivoluzione femminista non è quindi soltanto la lotta di liberazione per l’autodeterminazione delle donne, è piuttosto una rivoluzione per tutte le soggettività, per chiunque e per tutt*: un laboratorio di giustizia che disubbidisce a ogni ordine stabilito.

Ecco perché oggi disubbidire significa unirsi, resistere, disertare, sabotare i sistemi di potere opprimenti – insorgere e risorgere. Non in un’uniformità, in un tutto omogeneo, ma in una costellazione di differenze solidali, in vere e proprie alleanze dei corpi, come le chiama Judith Butler. La ribellione non va intesa come un gesto isolato, solitario, eroico: è una rete, una pratica collettiva di cura, di resistenza, di creazione.

Obiezione di coscienza? Esiste una disobbedienza civile che si nutre di audacia rivoluzionaria e del coraggio del no responsabile. La disobbedienza civile è un gesto di responsabilità, e non produce entropia né disordine, semmai un nuovo assetto perché nasce dal conflitto tra coscienza e legge, e afferma che la giustizia non coincide sempre con la legalità, come già sostenne Socrate nella propria autodifesa.

Henry D. Thoreau, nel 1849, ha scritto che “l’unico obbligo che ho diritto di assumermi è quello di fare in ogni momento ciò che ritengo giusto”. È, allo stato embrionale, l’idea che l’obbedienza cieca non sia virtù, ma rinuncia al pensiero, sospensione del giudizio.

Gandhi ha trasformato questa intuizione in pratica politica, con il satyagraha, la “forza della verità”: resistere senza violenza per smascherare l’ingiustizia.

Martin Luther King Jr. ne ha fatto il cuore del movimento per i diritti civili, ricordando che “un individuo ha la responsabilità morale di disobbedire a leggi ingiuste”.

Hannah Arendt, poi, ha dimostrato che la banalità del male nasce dall’obbedienza automatica e dall’assenza di pensiero che deresponsabilizza.

Angela Davis  insegna che disobbedire significa soprattutto cambiare le strutture che producono ingiustizia. Legando il femminismo nero alle lotte contro il razzismo e il sistema carcerario, ha fatto della disobbedienza una forma di liberazione collettiva.

Oggi, nelle lotte femministe e intersezionali, la disobbedienza civile continua: dire no alla violenza, al razzismo, all’esclusione, alla marginalità imposta significa dire a una libertà più giusta, condivisa e plurale.

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Fonte: FactoryA

Autore: Francesca Romana Recchia Luciani

Articolo tratto interamente da FactoryA


2 commenti:

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