Articolo da Progetto Melting Pot Europa
Confine:
«limite di una regione geografica o di uno stato; zona di transizione
in cui scompaiono le caratteristiche individuanti di una regione e
cominciano quelle differenzianti» 1.
Se provassimo a chiudere gli occhi e a concentrarci sul suono della parola confine
immagineremmo immediatamente una linea che potrebbe essere dritta o
curva, tondeggiante o spigolosa. Quel che è certo di una linea è che
separa, crea due zone distinte, almeno all’apparenza. Al di là di essa
c’è qualcosa che percepiamo come altro da noi.
Sempre rimanendo a occhi chiusi, pensando al termine confine, si
possono visualizzare barriere, muri, barricate e fili spinati. Sono
immagini che veicolano un suono: un tonfo sordo, violento. Un muro
blocca, frammenta e divide. Tuttavia, provando a spingersi oltre si può
scorgere un’altra linea di confine, questa volta curva: è un ponte. Il
suono che si può avvertire è quello dei passi degli individui che lo
attraversano.
Il presente articolo ha l’obiettivo di analizzare come le riflessioni
del femminismo black e decoloniale contribuiscono ad arricchire il
dibattito sul concetto di confine: sociale, interno e geografico,
esterno.
Per farlo si utilizzeranno tre prospettive: quella dell’antropologia
delle migrazioni, funzionale a mostrare la polisemicità del termine
confine e il dibattito che lo riguarda; le teorie dell’antropologo
Didier Fassin, secondo cui all’amministrazione dei confini esterni
corrisponde un aumento dei confini sociali interni tra classi, gruppi
sociali e generi, evidenziando l’ambivalenza dei confini; ci si
soffermerà poi sulla prospettiva delle autrici femmministe bell hooks,
Audre Lorde e Gloria Anzaldúa.
A livello teorico la tematica del confine è molto ampia e questa sua
complessità è visibile anche a livello semantico, specie se ci si affida
alla lingua inglese.
Con il termine border, confine esterno, possiamo indicare la
linea di divisione politico-territoriale tra due stati nazionali.
L’utilizzo del termine boundary si riferisce invece ai limiti simbolici, etnici, culturali e sociali, ovvero i confini interni agli stati nazione. Il termine frontier rimanda a uno spazio più ampio: la fascia geografica che è attraversata dalla linea di confine tra due stati.
L’antropologia delle migrazioni adotta questa distinzione, in
particolare quella generale tra confine e frontiera, per mostrare come
questi spazi possono essere luoghi particolarmente dinamici, nonostante
nel senso comune rimandino all’idea di una separazione netta tra due
aree o categorie.
Le migrazioni si definiscono come fenomeni che travalicano i confini
nazionali, mettendoli in discussione, sebbene vengano determinate dalle
stesse divisioni geografiche. I movimenti migratori contribuiscono non
solo a oltrepassare i confini, ma a stabilirne di nuovi. I fenomeni
legati ai confini danno vita a processi dinamici che contribuiscono alla
produzione di identità individuali e collettive.
A questo proposito l’antropologia delle migrazioni distingue due processi differenti: quello di b/ordering definisce il confine come elemento che limita le ambiguità territoriali e identitarie; quello di othering
indica invece la nascita di nuove differenze sulle zone di frontiera,
sia a livello territoriale che identitario. Nelle zone di confine i
concetti di identità e alterità spesso si scontrano.
Storicamente la frammentazione del blocco dell’Est e l’avvento della
globalizzazione non ha portato a un universo senza confini, ma li ha
trasformati. I confini non sono scomparsi, ma sono diventati mobili,
molteplici e differenziali. Questo fenomeno entra in contrapposizione
con la definizione giuridica tradizionale dei confini e anche con la
loro rappresentazione cartografica canonica che li descrive come ai
margini di un territorio.
Le
frontiere si sono moltiplicate e si è accentuato il loro carattere
ambivalente: sono un mezzo di esclusione e al contempo di contatto, di
incontro, di scambio, di violenza e di solidarietà.
L’evoluzione dei confini è ben rappresentata dal processo di
esternalizzazione delle frontiere che caratterizza l’Europa
contemporanea. I confini vengono continuamente dislocati, posti
all’esterno dello spazio europeo, espandendo i margini della “fortezza Europa”, sempre più inarrivabile.
Le stesse politiche migratorie producono una stratificazione delle
frontiere, mostrandone il loro carattere poroso e ambiguo. Per tanto,
non possono essere concepite solo in termini di esclusione. La
contemporanea militarizzazione dei confini esterni si riflette come uno
specchio all’interno dei territori: il confine genera un sistema di
inclusione differenziale in cui, per mezzo delle politiche, viene
indirettamente prodotta l’illegalità delle soggettività migranti.
Le politiche di frontiera e migratorie finiscono per condurre a una
reificazione delle divisioni razziali e di classe. Secondo l’antropologo
Didier Fassin il significato delle frontiere e dei confini è mutato nel
corso del tempo, rendendo alcuni periodi storici più favorevoli allo
sviluppo di barriere tra territori e individui. Si tratta di momenti di
tensione sociale, economica e politica.
La sensibilità verso le migrazioni, l’ostilità verso gli stranieri,
il consolidamento tra le frontiere e la delimitazione dei confini sono
dunque fenomeni ciclici. Se la circolazione delle merci è stata
progressivamente facilitata attraverso accordi internazionali per i
commerci, la circolazione di persone è diventata invece incredibilmente
difficile per la maggior parte della popolazione del pianeta.
Questo meccanismo si muove dai borders ai boundaries
come un movimento violento che inasprisce le divisioni di genere, etnia
e classe inasprendo le discriminazioni. In questa cornice il confine
produce la precarietà del migrante: lo stato crea immigrati clandestini,
attraverso la formulazione di leggi che istituzionalizzano l’illegalità
di residenza.
Ne consegue l’ostruzione dell’accesso al mondo del lavoro, che
comporta una vita in condizioni di povertà e l’esclusione dalle
politiche di welfare. Non casualmente il tema della migrazione viene
direttamente affiancato a quello della sicurezza. Il nemico arriva da
fuori, è l’outsider, colui che vìola il confine.
Si tratta, tuttavia, di logiche di esclusione e distinzione che
mirano a rimarcare la differenza tra autoctoni e alloctoni, ignorando il
peso della storia coloniale che ha prodotto una distribuzione
disomogenea delle ricchezze a livello globale.
Anche la riflessione femminista mostra come i confini siano elementi
che definiscono identità, generando relazioni di potere. In particolare,
il concetto di intersezionalità può costituire un paradigma per pensare
in concetto di confine.
Il concetto di intersezionalità viene formalizzato nel 1989 dalla
giurista afroamericana Kimberlé Crenshaw per correggere alcune alcune
sentenze emesse dal sistema americano. Il suo intento è quello di
mostrare come la discriminazione delle donne nere avviene tanto per una
questione razziale, quanto per il sessismo.
Non c’è possibilità di stabilire un confine tra questi due assi di
oppressione. In generale, le teoriche dell’intersezionalità pongono
l’attenzione sul dinamismo dei sistemi di oppressione: essi non sono
monoliti, non si producono separatamente l’uno dall’altro, ma si
compenetrano e trasformano vicendevolmente.
Se venissero considerati separatamente, si creerebbe l’erronea
concezione, storicamente esistita, secondo cui il sessismo può essere
analizzato solo dal punto di vista della donna bianca e il razzismo solo
dal punto di vista dell’uomo nero.
Questo concetto contribuisce a dare valore alla prospettiva del
soggetto maggiormente oppresso per comprendere il tema della
discriminazione. Il concetto di intersezionalità è fondamentale perché
travalica i confini, includendo nella riflessione femminista donne non
assimilabili al modello della donna bianca e di classe media.
Le
donne nere lottano sui confini rivendicando la propria posizione, in un
contesto che nega la loro capacità di azione e visibilità.
Il tema del condine come elemento che definisce e ridefinisce le
identità fa da sfondo agli scritti della teorica e accademica bell hooks
(1952-2021). Nasce e cresce nel Kentucky, dove i quartieri abitati dai
bianchi erano separati da quelli abitati dai neri tramite una rigida
linea di confine, quella della ferrovia. Dai suoi scritti emerge come
essere donna in un periodo storico in cui lo spazio era sottoposto a
segregazione razziale contribuisce una posizione peculiare, che
influisce sulle modalità di abitare e attraversare i luoghi.
Le donne nere superavano quotidianamente il confine per andare a lavorare nelle case dei bianchi.
Superare il confine è un’azione caratterizzata da forti implicazioni
emotive, i neri si sentivano giudicati e fuori posto. Tuttavia, lo
spostamento dal margine, identificato come luogo di abitazione dei neri,
verso il centro occupato dai bianchi ha anche dei vantaggi: permette la
conoscenza di entrambe le realtà e cambia il modo di abitare lo spazio,
in particolare quello del “focolare domestico”.
Nelle comunità nere, le mansioni di cura svolte dalle donne diventano
un campo di battaglia, uno spazio di lotta politica. Le donne nere
entravano nelle case dei bianchi per svolgere il lavoro di domestiche,
si trattava di una mansione faticosa, che consumava tempo ed energia.
Tuttavia, il punto di forza delle donne nere stava proprio nello
sforzo di non esaurire tutte se stesse in quel lavoro, per riuscire a
dedicarsi anche all’accudimento della propria casa, famiglia e comunità.
C’è una netta differenza tra il sessismo che affida alle donne il
lavoro riproduttivo perché considerato “naturale” e la condizione delle donne nere.
Per queste ultime la gestione della casa diventa un atto politico, la
strutturazione di uno spazio di cura opposto alla dimensione
disumanizzante e opprimente del razzismo. La casa era uno spazio sicuro
creato dalle donne per poter resiste ed esistere come soggetti attivi,
non meri oggetti. Nella sfera privata avveniva la restituzione di quella
dignità negata nel pubblico.
Anche se il concetto di “angelo del focolare” è considerato
tradizionalmente sessista dal femminismo bianco, le donne nere
attraverso questo ruolo hanno compiuto un atto politico sovversivo e di
resistenza. I bianchi avevano, secondo hooks, trovato un modo efficace
per sottomettere i neri a livello globale, costruendo strutture sociali
che minavano la strutturazione della sfera domestica.
Per alimentare la fiamma della speranza e per opporsi alla mentalità
colonizzatrice, promotrice dell’odio verso se stessi, le donne nere
hanno rivendicato il proprio ruolo nelle abitazioni. Ricordare questo
permette di capire il valore politico della resistenza nelle case. Senza
uno spazio da abitare, è impossibile costruire una comunità di
resistenza.
Questa concezione della casa come luogo di rivendicazione politica e
comunitaria agisce in due modi: da una parte crea un confine nuovo,
frantumando l’immaginario per cui le donne vivono un comune destino,
riportando l’attenzione sulla specificità del posizionamento della donna
nera; dall’altra ci si riappropria del confine come spazio di
autodeterminazione: il margine diventa un luogo di lotta.
Le opere della scrittrice Audre Lorde (1934-1992) hanno contribuito
ad ampliare profondamente la riflessione femminista, sollevando
argomenti attuali, in cui le tematiche dei confini e della differenza
risultano essere un punto centrale.
Rivolgendo l’attenzione alle molteplici differenze di genere, razza,
sesso, classe sociale, salute e malattia che coinvolgono le donne, Lorde
ha preceduto di decenni le teorie sull’intersezionalità. Nei suoi
scritti, il tema del confine, come anche nei lavori di hooks è
rappresentato dalle divisioni sociali interne, i boundaries.
In particolare, nel testo Sorella Outsider, che raccoglie
una serie di saggi scritti tra il 1976 e il 1984, Lorde si rivolge a chi
è consapevole di vivere sui confini: le outsiders, donne che non riconoscendosi negli “strumenti del padrone”
non si identificano nei confini tracciati per asservire gli interessi
del potere. Il testo è caratterizzato da una fitta critica nei confronti
di quel femminismo bianco e accademico che promuove una semplice
tolleranza della differenza tra le donne, cercando di raggrupparle in
una natura comune, distruggendo di fatto il potere creativo della
diversità.
Secondo Lorde, infatti, soltanto quando le differenze saranno
riconosciute e considerate il nostro essere nel mondo potrà diventare
produttivo. Alle donne è stato insegnato di ignorare le differenze o,
peggio, di vederle come causa di separazione e sospetto.
La paura di una realtà così frammentata non ha permesso una
liberazione dall’oppressione, ma solo maggiore vulnerabilità.Secondo
Lorde, in una società basata esclusivamente sul profitto e non sul
bisogno umano, è fondamentale l’esistenza di un gruppo sistematicamente
oppresso e deumanizzato ai fini del mantenimento dei rapporti di potere.
Questo crea l’illusione che l’unica via d’uscita per gli oppressi sia
quella di omologarsi alle categorie degli oppressori. Per Lorde le
differenze esistono, sono la razza, l’età, il sesso e la classe ma non
sono quelle a separarci, è il nostro rifiuto a riconoscerle. L’energia
necessaria a vivere e a esplorare le differenze viene riversata nel
renderle dei confini invalicabili, così da trasformarle in devianze.
Tuttavia, la differenza umana deve diventare un trampolino per il
cambiamento, il muro che segna il confine deve diventare un ponte. Lorde
fa esplicito riferimento a The Pedagogy of the Oppressed di
Paulo Freire per mostrare come le possibilità di cambiamento nascono nel
momento in cui gli oppressi riconoscono, anche in loro stessi, le
dinamiche degli oppressori.
Da qui è necessario un cambiamento, una crescita dolorosa: possiamo
ridefinirci solo se lottiamo anche a fianco di chi è diverso da noi,
nella condivisione di un unico obiettivo. L’azione a cui Lorde mira è
legata a una continua rottura dei confini e delle differenze, per
arrivare a ridefinirsi connettendo le specificità.
Non bisogna chiudersi nei confini di una sola oppressione, ma
riconoscere ciò che è comune in tutte loro. Così facendo Lorde riscrive
il significato del termine confine da linea di separazione a processo
dinamico in cui le differenze racchiudono un potenziale di unione.
Le differenze risultano profondamente legate al tema dei confini,
tuttavia è necessario un lavorìo politico affinché diventino ponti e non
barriere. Nella sua ambivalenza, il confine non è solo il punto in cui
le differenze si manifestano, ma anche quello attraverso cui queste
entrano in contatto, creando comunicazione e scambio.
In questa cornice, le teorie femministe sono fondamentali per
riconoscere il confine come luogo di oppressione e di lotta. Questo
elemento emerge in modo particolare nel testo Terra di confine/La frontera. La nuova mestiza
del 1987 di Gloria Anzaldúa (1942-2004), in cui l’autrice parla della
frontiera in cui è nata e cresciuta: il confine tra Texas sudoccidentale
e Messico.
Secondo Anzaldúa la terra di confine è un luogo in cui due o più
culture si costeggiano e persone appartenenti a gruppi sociali diversi
abitano lo stesso territorio. Raccontando la sua esperienza personale di
vita sul confine si definisce una “donna di frontiera” che è
nata e cresciuta tra due culture. Il confine non viene raccontato come
un luogo confortevole, è un luogo scomodo e gli aspetti del suo
paesaggio sono principalmente sfruttamento, oppressione e rabbia.
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Fonte: Progetto Melting Pot Europa
Autore: Elettra Maria Nicoletti
Licenza: 
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Articolo tratto interamente da Progetto Melting Pot Europa