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martedì 11 novembre 2025

Licia Pinelli: memoria, giustizia, resistenza



Articolo da Enciclopedia delle donne

Per darti una idea visiva. Io sono qui che sto parlando con te, sono abbastanza tranquilla. E dentro di me c’è qualche cosa, come un’altra persona che volta la faccia dall’altra parte e non ti guarda neppure

(Licia Pinelli, Una storia quasi soltanto mia)

La storia di Licia comincia a Senigallia, una cittadina di mare, nelle Marche: nasce di sette mesi, ed è la prima prova che deve affrontare e che supera, tenacemente attaccata alla vita.

La sua famiglia si trasferisce a Milano quando Licia ha 18 mesi. Il padre, falegname anarchico, viene assunto alla Pirelli, la madre continua il suo lavoro di sarta a domicilio.

Vivono in una casa di ringhiera in Viale Monza, due locali con il bagno all’esterno, in comune con gli altri inquilini. Una casa che diventerà ancora più piccola con la nascita dei suoi due fratelli, nel ’33 e nel ’36. Bambina, corre per il quartiere con gli amici della ringhiera. Le condizioni economiche della famiglia non le permettono di continuare gli studi che interrompe dopo “l’avviamento” e a 13 anni comincia a lavorare. Le rimarrà un grande amore per i libri e per tutta la vita sarà un’accanita lettrice.

Vive con entusiasmo e speranza la fine del fascismo, e per un periodo si avvicina alla gioventù comunista, ma ha un carattere troppo indipendente e lascia, non adattandosi a seguire regole che sente un po’ troppo strette. È curiosa, in cerca di nuovi modelli ed esperienze e con questo spirito si iscrive a un corso di esperanto, al circolo filologico milanese. Qui conosce quello che diventerà il suo compagno, Giuseppe Pinelli, detto Pino, un giovane anarchico pieno di entusiasmo e ideali. L’esperanto è la lingua universale che li accomuna in un ideale di pace e uguaglianza tra gli uomini. Una lingua che lui già conosce e vorrebbe insegnare e che lei vorrebbe imparare. Siamo negli anni ’50. Entrambi hanno una grande curiosità verso la vita, un grande amore per la lettura; la loro disponibilità verso la gente, verso le idee nuove e le esperienze, li porta in contatto con moltissime persone degli ambienti più diversi. Si sposano nel 1955.

Dopo il matrimonio la loro piccola casa diventa un porto di mare, aperta a tutti, frequentata da studenti, che si fanno battere a macchina da Licia le tesi di laurea, da compagni anarchici e non, da assistenti universitari, da molti cattolici.

Nascono due bambine, Silvia e Claudia, a un anno di distanza l’una dall’altra. Negli anni tra il 1968 e il 1969 l’impegno politico di Pino nel movimento anarchico e nel sindacato cresce sempre di più. È molto attivo, fa da tramite tra i vecchi anarchici e i giovani della contestazione e non esita a esporsi in prima persona. Licia non lo segue in questo suo impegno: lavora in casa, segue le figlie, vorrebbe il suo compagno più presente. È Pino che porta a casa la ventata di cambiamento che si vive per le strade, è un ottimista innamorato della sua compagna e dei suoi ideali.

Il 12 dicembre 1969 scoppia una bomba nella Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana: 17 morti e 88 feriti. È il primo, terribile, atto della strategia della tensione. Milano, l’Italia intera, è basita, attonita, impaurita. Parte immediatamente la caccia agli anarchici e anche Pino viene fermato dalla polizia, invitato dal commissario Calabresi a seguirlo in questura con il suo motorino. «Gli faranno prendere un bello “spaghetto” e poi lo faranno tornare a casa» dice Licia alle sue figlie che le chiedono perché il papà non torna. Ma Pino non tornerà mai più.

Nella notte tra il 15 e il 16 dicembre muore, precipitando, durante un interrogatorio, da una finestra della questura di Milano. Il suo stato di fermo, durato tre giorni, si è protratto ben oltre i termini legali, ma nessuno verrà mai chiamato a rispondere neanche di questo. La famiglia viene avvisata da alcuni giornalisti; nella notte arrivano a casa Pinelli Camilla Cederna, Corrado Stajano, Giampaolo Pansa; e quando Licia chiama in questura per sapere perché non è stata avvisata si sente rispondere: «non avevamo tempo».

Al dolore immenso, a questa morte orrenda, si aggiungono le dichiarazioni infamanti che vengono immediatamente riversate su Pino, accusato dal questore di Milano di essersi suicidato a dimostrazione della sua colpevolezza. I giornali parlano di «alibi caduto», di slancio felino al grido «è la fine dell’anarchia». Licia, con pochi amici, trova la forza e il coraggio di affrontare tutto questo, di ribellarsi alle verità ufficiali e con dignità inizia la sua battaglia per sapere non solo la verità sulla morte del marito, ma per difenderne la memoria così crudelmente distorta. Da subito, comincia a conservare tutti gli articoli, tutte le parole e tutte le bugie gettate sulla memoria di Pino: ritaglia e conserva, ritaglia e conserva...

Deve cambiare scuola alle bambine, che all’epoca hanno 8 e 9 anni; deve cambiare casa. Trova lavoro come segretaria presso l’Università. La sua vita viene scandagliata, investigata e lei mostra in pubblico una maschera di compostezza, forse anche di durezza, che le permette di affrontare il ruolo di vedova Pinelli. Il privato è un’altra cosa, ma non deve trasparire. Difende dalla curiosità, dai giornalisti, dai fotografi, quello che rimane della sua famiglia che tenta di riportare a una normalità.

E chiede Giustizia.

Questo significa affrontare un’impresa enorme, lavorare incessantemente. Il 27 dicembre 1969 denuncia, insieme alla mamma di Pino, Rosa Malacarne, il questore Guida per diffamazione; il 24 giugno 1971 denuncia il Commissario Calabresi e tutti i presenti in questura per omicidio volontario, sequestro di persona, violenza privata e abuso di autorità. L’istruttoria viene affidata al giudice D’Ambrosio che nel 1977 l’archivierà escludendo sia il suicidio che l’omicidio: motivando la morte come un «malore attivo», proscioglie tutti gli indiziati. Nel 1978 il tribunale di Milano non accoglie la richiesta di Licia che chiede il risarcimento danni dal Ministero degli Interni per la morte del marito e la condanna a pagare le spese processuali: Licia non ricorre in appello dichiarando la sua totale sfiducia. È una sfiducia profonda, che intacca quell’idea di democrazia nella quale Licia e la sua generazione hanno creduto alla fine del fascismo.

Chiede Giustizia, ma quella giudiziaria non la ottiene, scontrandosi contro «un muro di gomma» che le impedisce di entrare in un’aula di tribunale, di sapere quello che è avvenuto in quella stanza, quella notte, quando in uno Stato che si definisce Democratico, di Diritto, un cittadino innocente, entrato vivo nella questura di Milano, precipita da una finestra e muore, dopo tre giorni di fermo illegale.

Tutta la vicenda, all’inizio degli anni Ottanta, non è più d’attualità, in un Paese che di stragi ne ha viste e vedrà ancora. 

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Fonte: Enciclopedia delle donne

Autore: 
Claudia Pinelli

Licenza: Licenza Creative Commons

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Articolo tratto interamente da Enciclopedia delle donne 


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