Articolo da Zeroviolenza
Marzia Bianchi, Zeroviolenza
15 settembre 2016
15 settembre 2016
Welcome, you are safe!"
Sono state le prime parole che ho pronunciato nel momento esatto in cui ho raggiunto correndo un gruppo di profughi che era stato fatto scendere sugli scogli di Corocas, a Lesbo, mentre facevo eco volontariato per pulire le coste del nord.
Tagliavamo gommoni arenati e raccoglievamo giubbotti di salvataggio, alcuni poco più grandi di una mano, proprio per supportare, insieme ad altri volontari da tutto il mondo, il lavoro di un’associazione che si occupa di accogliere e sostenere i rifugiati nell'isola greca.
E così, tra le grida in arabo dello scafista e le facce spaventate di quel gruppo di persone in fuga, tutto quello che abbiamo visto in televisione o letto sui libri, si è materializzato là, davanti ai nostri occhi, a 30 metri da noi. A 8 km dalle coste turche.
La ragazza che ho soccorso ha 17 anni e viaggiava con suo fratello di 15. Dopo aver ripetuto il mio nome diverse volte, ha voluto che glielo scrivessi per paura di dimenticarlo. E io ho fatto lo stesso. Mi ha raccontato in un inglese sgangherato dei genitori morti, dei 7 anni di lavoro per pagare un viaggio illegale che non si sa dove la porterà alla fine.
Mi ha abbracciato un'ultima volta ed è salita sull'auto, guardandomi dritta negli occhi, mentre batteva la mano sul cuore.
In quel preciso momento non stai a pensare se è siriana, austriaca o congolese. Speri solo che in qualche modo si salvi, che resti incollata a suo fratello e che nessuno li separi. Mai.
E pensi soprattutto che una parte di te viaggerà per sempre con lei e viceversa.
E così, tra le grida in arabo dello scafista e le facce spaventate di quel gruppo di persone in fuga, tutto quello che abbiamo visto in televisione o letto sui libri, si è materializzato là, davanti ai nostri occhi, a 30 metri da noi. A 8 km dalle coste turche.
La ragazza che ho soccorso ha 17 anni e viaggiava con suo fratello di 15. Dopo aver ripetuto il mio nome diverse volte, ha voluto che glielo scrivessi per paura di dimenticarlo. E io ho fatto lo stesso. Mi ha raccontato in un inglese sgangherato dei genitori morti, dei 7 anni di lavoro per pagare un viaggio illegale che non si sa dove la porterà alla fine.
Mi ha abbracciato un'ultima volta ed è salita sull'auto, guardandomi dritta negli occhi, mentre batteva la mano sul cuore.
In quel preciso momento non stai a pensare se è siriana, austriaca o congolese. Speri solo che in qualche modo si salvi, che resti incollata a suo fratello e che nessuno li separi. Mai.
E pensi soprattutto che una parte di te viaggerà per sempre con lei e viceversa.
Quindi una parte di me adesso è a Moria o almeno immagino di essere lì, con lei, tutti i giorni. Ogni volta che faccio la doccia mi chiedo se lei avrà avuto modo di lavarsi. Quando mi infilo a letto, mi chiedo se abbia almeno una tenda sotto cui ripararsi. Sono anni ormai che sui social tutti parlano di tutto e di tutti; sarebbe bello e soprattutto socialmente utile vedere e sapere che c’è gente che si indigna, non solo virtualmente, per le condizioni in cui vivono migliaia e migliaia di esseri umani. Provate a scrivere “Moria Camp” su google, magari cliccando anche sulle immagini.
Allora la domanda è “La ragazza che ho soccorso è salva sul serio? Da cosa l’ho salvata?”
Dal mare. Solo da quello.
Moria è un inferno e si percepisce senza entrarci, anche perché vi hanno accesso solo la polizia greca, le nazioni unite, l'Unhcr, ma percorrendo la strada che la delimita si leggono scritte di ogni genere che sottolineano lo stato di prigionia delle persone che vivono lì da mesi, in attesa di una risposta. Un luogo dove i diritti umani non esistono, la terra di nessuno, al punto che le organizzazioni più grandi come Save the children, Oxfam, Medici senza frontiere, dopo l’accordo tra Unione Europea e Turchia, hanno deciso di abbandonare l’hotspot per non rendersi complici di un sistema iniquo e disumano.
In teoria parliamo di un centro di prima accoglienza con 700 posti letti. In pratica, si tratta di un agglomerato di container, tende da campeggio, gabbie, filo spinato, bagni chimici, topi, dove vivono come reclusi più di 3000 persone tra adulti e bambini.
Dal mare. Solo da quello.
Moria è un inferno e si percepisce senza entrarci, anche perché vi hanno accesso solo la polizia greca, le nazioni unite, l'Unhcr, ma percorrendo la strada che la delimita si leggono scritte di ogni genere che sottolineano lo stato di prigionia delle persone che vivono lì da mesi, in attesa di una risposta. Un luogo dove i diritti umani non esistono, la terra di nessuno, al punto che le organizzazioni più grandi come Save the children, Oxfam, Medici senza frontiere, dopo l’accordo tra Unione Europea e Turchia, hanno deciso di abbandonare l’hotspot per non rendersi complici di un sistema iniquo e disumano.
In teoria parliamo di un centro di prima accoglienza con 700 posti letti. In pratica, si tratta di un agglomerato di container, tende da campeggio, gabbie, filo spinato, bagni chimici, topi, dove vivono come reclusi più di 3000 persone tra adulti e bambini.
Fonte: Zeroviolenza
Autore: Marzia Bianchi
Autore: Marzia Bianchi
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Articolo tratto interamente da Zeroviolenza
Povera gente disperata. Mi si stringe il cuore a vedere le loro facce.
RispondiEliminaPurtroppo, tutti i nostri bravi politici europei,sanno denunciare,ma quanto a prendere serie decisioni nessuno brilla,nessuno ha la bachetta magica per risolvere questa epocale transumanza umana,ma il modo peggiore per risolverla e tenere reclusi questi disgraziati per mesi,quando non si parli di anni.Essenziale sarebbe aiutarli in casa loro,perche non potremo accoglierli tutti.
RispondiEliminaCiao,fulvio