sabato 30 luglio 2016
A 40 anni dal terremoto, il Friuli ricorda con una mostra
Articolo da OggiScienza
SPECIALE LUGLIO – 1976: quando si nomina questa data a un friulano, qualcuno sussulta ancora scosso da un tremito, ripercorrendo le sensazioni vissute durante il terremoto che colpì parte del Friuli Venezia Giulia il 6 maggio di quarant’anni fa. Nella rievocazione storica di questo tragico evento è stata allestita la mostra “L’identità di un paesaggio. La memoria della ricostruzione”. Inaugurata lo scorso 15 luglio nel Geo Centre Immaginario Geografico (IG), sito a Malnisio di Montereale Valcellina, resterà aperta al pubblico fino al prossimo 15 agosto.
La mostra, concepita per essere itinerante, è focalizzata sull’opera di riedificazione che ha visto l’attuazione dell’articolo 8 della legge regionale n.30/1977, che riguardava il recupero degli edifici colpiti dai terremoti. La legge venne emanata con l’intenzione di salvaguardare le strutture che rispondevano a canoni di architettura tipica friulana. La volontà condivisa dagli enti politici era quella di riportare in vita le cosiddette “abitazioni spontanee” che sarebbero altrimenti state dimenticate, in un’ottica di ricostruzione dell’identità friulana.
Queste strutture non seguono forme precise e non rispondono a leggi particolari, piuttosto si identificano per caratteristiche uniche, costruite utilizzando i materiali del posto e adattandole al contesto. Gli studi sulla casa rurale friulana sono quindi molto legati all’ambiente naturale in cui sono state costruite. Partiamo quindi dall’ambiente per comprendere il motivo dell’attuazione di questa legge fortemente voluta in primis dalla popolazione stessa.
Il Friuli Venezia Giulia presenta netti contrasti nelle sue caratteristiche fisiche, che agli inizi del secolo scorso si riflettevano stabilmente sulle attività lavorative umane, con le agricolture estensive al centro-sud e gli allevamenti nelle zone sotto i 1000 metri di altitudine. Il nord della regione è dominato da catene montuose parallele, le Alpi e le Prealpi Carniche e Giulie costituite prevalentemente da calcari, dolomie, calcari selciferi, marnosi e arenarie. Al centro, la pianura alluvionale è solcata dai letti dei fiumi (Tagliamento, Livenza, Isonzo e Timavo) e dall’anfiteatro Morenico, un ex ghiacciaio. Questa zona viene comunemente divisa dalla linea delle Risorgive in alta e bassa pianura. La parte inferiore della regione sfocia infine nel Mare Adriatico.
È proprio la presenza di terreni misti incompatibili a contribuire al rimbombo delle vibrazioni e quindi all’amplificazione dei danni per l’incontro delle faglie rocciose. Alle 9 della sera del 6 maggio 1976, l’urlo dell’Orcolat si fa sentire – nome che nell’immaginario collettivo viene dato all’Orco responsabile del cataclisma. Oscillazioni e vibrazioni sussultorie sprigionano l’energia trasmessa dall’onda sismica. La maggior parte delle persone escono dagli edifici terrorizzate, alcuni restano dove sono, minimizzando l’accaduto, altri ancora confusi si rifugiano nelle proprie abitazioni tremolanti. La scossa – di magnitudo 6,4 secondo la scala Richter – trancia le linee di comunicazione, sia telefoniche sia radio, priva la zona di energia elettrica e lascia i terremotati senz’acqua, facendo saltare le tubature e inquinando gli acquedotti. Fuori uso anche le strade e le ferrovie. Gli unici mezzi funzionanti rimangono le radio sulle unità mobili dei Vigili del Fuoco, Stradale e Croce Rossa. I primi contatti con l’esterno si hanno in realtà grazie ai radioamatori e ai CB (Citizen Band), piccoli e grandi appassionati di ricetrasmettitori, che riescono a mettersi in contatto con i soccorsi tramite le loro radioline. Casualmente, al momento è in corso un’esercitazione del CER (Corpo Emergenza Radioamatori) che contribuisce alla diffusione delle prime informazioni parziali.
Il giorno successivo, davanti al Presidente del Consiglio Aldo Moro e al Ministro dell’interno Francesco Cossiga in visita, si apre uno scenario di desolazione e di morte: le case sventrate, le aziende scoperchiate, i castelli sbriciolati, le facciate romaniche delle chiese crollate, con danni al patrimonio storico culturale che superano i 1800 miliardi di lire.
I numeri della catastrofe saranno individuati solo in seguito: complessivamente sono state distrutte circa 17.000 case, sono morte 965 persone e altre 3000 sono rimaste ferite. Quasi 200 000 persone hanno perso la casa. La gestione dell’emergenza viene affidata in modalità speciale al sottosegretario alla protezione civile Giuseppe Zamberletti, con il ruolo di commissario straordinario. A causa dell’ingente ammontare dei danni che ricoprono un territorio pari a circa 5000 kmq, gli vengono conferiti poteri al limite della Costituzione. Il suo operato non è circoscritto alla sola supervisione, ma si estende alle funzioni di tutti i Ministri. A lui l’onere di rimettere in sesto i 137 comuni colpiti: 45 quelli disastrati, 40 gravemente danneggiati e 52 danneggiati. L’epicentro viene localizzato nel Monte San Simeone, a nord di Udine, sopra Gemona, vicino a Bordano e Venzone.
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Fonte: OggiScienza
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Articolo tratto interamente da OggiScienza
Photo credit YukioSanjo (it.wikipedia) [CC BY-SA 3.0], attraverso Wikimedia Commons
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