sabato 24 ottobre 2015
I passi lungo la traversata
Articolo da Global Voices
La strada costiera di Eftalou, nell'isola di Lesbo, Grecia, è costeggiata da uliveti, alberi di fico, e resti dei passaggi giornalieri di centinaia di uomini, donne e bambini richiedenti asilo. La costa è piena di rifiuti, di gommoni sgonfi, giubbotti di salvataggio pieni di polistirolo, spugna o erba secca; indumenti inzuppati, e a volte giocattoli o oggetti di ricordo portati con sè nella traversata e poi persi nella fretta di muoversi.
Quando il sole sorge e fa brillare il mar Egeo, l'orizzonte è punteggiato da rifiuti che vengono trascinati verso le acque turbulente. Guidati verso la costa dai volontari, i passeggeri dell'imbarcazione inciampano, camminando in ginocchio sull'acqua, stringendo bambini, anziani, portando in salvo gli zaini. Travolti dal sollievo, si abbracciano, si salutano, scoppiano a piangere, si mettono in ginocchio per pregare o si siedono in silenzio. Vengono fatte chiamate per rassicurare i membri della famiglia che sono ancora nei campi e nelle comunità in Siria, Afghanistan, Libano, Turchia, Eritrea, Somalia e altrove, per comunicare che ce l'hanno fatta, che sono vivi, che sono insieme.
Fatima, insegnante e madre di due bambini, collassa arrivando sulla costa, piangendo, e facendo fatica a respirare. Mahmoud, suo figlio di 11 anni, si inginocchia e la culla, mentre le allentiamo il velo, la rassicura e la tranquillizza, dicendole di essere salvi e che la ama. “Sul barcone, mi sono trattenuta dentro tutta la mia paura per non mostrarla ai miei figli” spiega Fatima “ma sono più vecchi della loro età. Spero che, in qualsiasi luogo, possano vivere l'infanzia che è stata loro negata, e spero di poter ricostruire le nostre vite”.
Ahmed si siede sulle rocce, le sue gambe tremolanti stanno per cedere, circondato dai suoi figli. Sawsan, la sua figlia maggiore, gli tiene la mano. Più tardi, percorrendo i sei kilometri verso Molyvos, si rianima nonostante il calore implacabile, e ammira i campi lussureggianti, gli alberi in fiore e le rovine preservate di una fortezza poco distante. I suoi figli adolescenti sono stati arrestati e frustati a Raqqa, e quando sono stati rilasciati, ha deciso di lasciare la Siria — una decisione, dice, che ha trovato devastante. “Non c'era altra opzione” ha detto Ahmed “Ho cresciuto i miei figli insegnando loro di respingere il settarismo e di avere un profondo rispetto per tutte le religioni. Abbiamo visto una brutalità e una inumanità da cui non potevo più proteggerli e sapevo che dovevamo andarcene.”
Lara e Haya, adolescenti appassionate di hip-hop, camminano accanto a noi con i loro fratelli. Loro padre Ehab si sta riprendendo da un intervento a cuore aperto a cui è stato sottoposto il mese prima, una cicatrice che si sta rimarginando è visibile sul suo petto. Cammina lentamente, fermandosi spesso per respirare, fino a quando un volontario lo convince di accettare un passaggio, rassicurandolo che i suoi figli saranno salvi e che lo raggiungeranno in un campo lì vicino. Mentre il gruppo continua a camminare lungo la strada sporca, e il sole si innalza in un cielo senza nuvole, il più giovane decide di andare a nuotare. Saltano dalle rocce completamente vestiti e nuotano di schiena sulle acque, ora tranquille. Ridono, facendo gesti ai turisti che stanno prendendo il sole sulla spiaggia, domandandosi cosa stiano pensando, cosa capiscano del loro gruppo disparato, unitosi dalle circostanze e ora unito in una profonda amicizia, visto il loro viaggio insieme.
Canyar, un musicista curdo di Kobane, Siria, si siede e riposa con la sua famiglia e i suoi amici. Ha portato con sè il suo strumento, il tanbur – un liuto a manico lungo – e poche altre cose. “La mia musica è la mia resistenza” afferma “Suono canzoni per onorare i nostri caduti, quelli che sono morti difendendo il nostro popolo, e per celebrare la vita, le nostre tradizioni e la nostra cultura. La mia musica è il mio modo di contribuire nella lotta del mio popolo.”
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Fonte: Global Voices
Autore: scritto da Caoimhe Butterly - tradotto da Maira Mohamed
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Articolo tratto interamente da Global Voices
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