Articolo da Pressenza
Stretto, da subito, tra rimozione ed oblio, si
inaugura, a partire da lunedì 7 Aprile, il “Mese del Ricordo” in Ruanda.
Come molti Paesi ri-emersi da una guerra lunga e sanguinosa, il tema
del ricordo, anche in Ruanda, è un tema cruciale, a sua volta
problematico e doloroso, con il quale fare i conti, sia nel senso della
memoria degli eventi e delle vittime, sia nel senso della ricostruzione
di una memoria in grado di costituire un retroterra per la costruzione
di nuove identità e di rinnovati significati dello stare insieme, della
convivenza e del dialogo. Più di altri Paesi, però, sono molti gli
eventi da ricordare, in un Paese dalla storia, non solo recente, come il
Ruanda; anzi, proprio nel caso del Ruanda, di un Paese la cui storia
(spesso ma non esclusivamente, tragica) recente rappresenta, in tanti
casi, l’esito di processi lunghi e dolorosi, che affondano in un passato
ben più remoto.
Non a caso, il tema della memoria si accompagna al dolore per le tragedie (al plurale)
attraversate, e dallo stesso 7 Aprile, con l’inaugurazione del “Mese
del Ricordo”, si celebra anche una settimana di lutto nazionale, in
ricordo e in commemorazione, al tempo stesso, dei fatti tragici del
conflitto civile, della guerra etno-politica e del genocidio di venti
anni fa. Classico conflitto etnico, secondo una fin troppo abusata
classificazione, quello del Ruanda è stato piuttosto, insieme, il
tragico epilogo della lunga vicenda coloniale del Paese, per lungo tempo
sotto il giogo del colonialismo belga, ed una altrettanto tragica
manifestazione di conflitto etno-politico, in cui desiderio di potere e
di rivalsa, da parte di settori civili e militari, hanno soffiato sul
fuoco di presunte distinzioni e contrapposizioni etniche per fini di
dominio e di conquista. Non si sottolineerà mai abbastanza il ruolo
deteriore del colonialismo occidentale, nello specifico belga, nel
Paese, dopo l’instaurazione da parte del Belgio, a partire dal lontano
1916, di un vero e proprio “sistema” di separazione razziale per lo
sfruttamento coloniale e il consolidamento del potere. La minoranza tutsi
fu, per il Belgio, il puntello del potere coloniale, la “minoranza
privilegiata”, a scapito delle altre etnie, sulla cui base cementare la
continuità del potere ed organizzare l’articolazione
dell’amministrazione statale.
Dopo l’indipendenza, nel 1959, fu tuttavia la maggioranza hutu ad
acquisire il controllo delle leve e delle postazioni chiave del potere,
e ciò non fece altro che gettare nuove basi per la divisione ineguale
delle risorse e del potere, e, di conseguenza, per un risentimento
sempre più acceso, degli uni contro gli altri. L’indicazione etnica era
presente sulle carte d’identità dei ruandesi, che finirono per diventare
vere e proprie sentenze di condanna, nei mesi più duri della guerra e
del genocidio. Una guerra che, nella sua articolazione più recente, si
sviluppò in due fasi. La prima tra il 1990 e il 1994, tra la
sollevazione dei ribelli tutsi contro il regime hutu e i
cosiddetti “dialoghi di pace” per la compartecipazione del potere,
negoziati nel corso del 1993-94. La seconda successiva all’attentato
all’aereo presidenziale, che costò la vita al presidente del Ruanda,
probabilmente per mano di estremisti hutu, indisponibili alla
divisione del potere con la ex minoranza privilegiata dal regime
coloniale, che, nel trapasso del potere, diede il via a quello che è
passato, alla storia e alla memoria, come uno dei genocidi più
agghiaccianti dell’epoca moderna, una lunga teoria di assalti,
devastazioni, roghi, uccisioni e stupri etnici, a colpi di armi leggere,
bastoni chiodati e machete che, tra l’Aprile e il Luglio di venti anni
fa, provocò oltre 800.000 morti ed una immane, estrema, devastazione.
Una devastazione di cui il mondo si è accorto tardi e male: l’incitamento all’odio e allo sterminio da parte della famigerata Radio Mille Colline
(www.rwandafile.com), l’indisponibilità delle diplomazie occidentali,
dopo la recente catastrofe della Somalia, ad impegnarsi attivamente per
la prevenzione del conflitto, il ruolo tipicamente neo-coloniale
giocato, in particolare, prima e dopo la guerra, dal Belgio e dalla
Francia, l’Europa distratta dalla contemporanea disgregazione dei
Balcani e dalla guerra in Bosnia ed in ex Jugoslavia, ennesima tragedia
del secolo, e le Nazioni Unite che vedevano già travolte le speranze di
“dividendi di pace” che erano sembrate aprirsi all’indomani della Guerra
Fredda. Oggi, il Ruanda è un Paese diverso: resta tra i Paesi più
poveri al mondo, ma si registrano segnali incoraggianti, nuove case sono
state costruite, l’approvvigionamento dell’acqua è migliorato e sono
state avviate campagne sociali per il miglioramento delle condizioni di
vita, le case sono più curate, i tetti in lamiera vanno sparendo, si
sono significativamente ridotte le baraccopoli.
Il mese che si inaugura non rappresenterà, dunque,
solo una commemorazione; forse, insieme con la memoria, anche una nuova
tappa nella lenta e dolorosa riemersione del Paese dal suo lungo
passato.
Fonte: Pressenza
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Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale.
Articolo tratto interamente da Pressenza
Photo credit Adam Jones, Ph.D. (Own work) [CC-BY-SA-3.0], via Wikimedia Commons
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La cosa che più mi fa indignare è che paesi come il Ruanda potevano vivere in pace, se solo i paesi "civili" e ricchi non avessero spinto a creare tutte le guerre che ora devastano le aree "meno civilizzate" del mondo.
RispondiEliminaE per cosa? Per soldi... chissà quando si capirà che le persone valgono più del denaro.
Un abbraccio
Caro Cavaliere ci sentiamo impotenti di fronte a immensi massacri di poveri civili innocenti. non conosco tanti retroscena so solo che è una vergogna.
RispondiEliminaCiao e buona serata caro amico.
Tomaso
una storia dimenticata e snobbata dal mondo in quegli anni un vero e proprio genocidio
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