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La strage di Piazzale Loreto fu un eccidio avvenuto in Italia, il 10 agosto 1944 in Piazzale Loreto a Milano, durante la seconda guerra mondiale.
Quindici partigiani furono fucilati da militi del gruppo Oberdan della Legione Autonoma Mobile Ettore Muti della RSI, per ordine del comando di sicurezza nazista, e i loro cadaveri vennero esposti al pubblico.
L'8 agosto 1944 fu compiuto un attentato con due ordigni esplosivi contro un camion tedesco (targato WM 111092) parcheggiato in viale Abruzzi a Milano. In quell'attentato non rimase ucciso alcun soldato tedesco (solo l'autista Heinz Kuhn, che dormiva nella cabina di guida, riportò lievi ferite) ma provocò la morte di sei cittadini milanesi e il ferimento di altri undici.
All'alba del 10 agosto 1944, a Milano, quindici partigiani vennero prelevati dal carcere di San Vittore e portati in Piazzale Loreto, dove furono fucilati da un plotone di esecuzione composto da militi fascisti del gruppo Oberdan della legione «Ettore Muti» guidati dal capitano Pasquale Cardella, che agiva agli ordini del comando tedesco, in particolare del capitano delle SS Theodor Saevecke, noto in seguito come boia di Piazzale Loreto, allora comandante del servizio di sicurezza (SD) di Milano e provincia (AK Mailand).
Nel comunicato del comando della sicurezza nazista, si afferma che la strage fu attuata per un insieme di «atti di sabotaggio» tra i quali è riconoscibile a fatica l'attentato di viale Abruzzi.
Il comandante dei Gap, Giovanni Pesce, negò sempre che quell'attentato potesse essere stato compiuto da qualche unità partigiana. Certi elementi anomali hanno fatto definire da alcuni l'attentato come controverso: il caporal maggiore Kuhn aveva parcheggiato il mezzo a poca distanza da un'autorimessa in via Natale Battaglia e dall'albergo Titanus, entrambi requisiti dalla Wehrmacht e a disposizione del personale militare nazista. Ma il bando di Kesselring, invocato dal comunicato e dalle alte gerarchie naziste, prevedeva la fucilazione di dieci italiani per ogni tedesco solo in caso di vittime naziste.
È dunque lecito supporre, come fece il Tribunale Militare di Torino nel processo Saevecke, che la strage di piazzale Loreto sia stata un atto deliberato di terrorismo che aveva lo scopo strategico di stroncare la simpatia popolare per la Resistenza al fine di evitare ogni forma di collaborazione e garantire alle truppe naziste la massima libertà di movimento verso il Brennero. Theodor Saevecke, il cui comando si trovava all'Hotel Regina in via Silvio Pellico, sede delle SS, dei servizi di sicurezza (SD) e della Polizia Politica (la Gestapo) e noto luogo di tortura, pretese ed ottenne, ciò nonostante, la fucilazione sommaria di quindici antifascisti, e compilò egli stesso la lista, come testimoniato da Elena Morgante, impiegata nell'ufficio delle SS, cui fu ordinato di batterla a macchina.
I corpi accatastati nel piazzale. Il cartello ne dava la definizione di «assassini».
Milite di guardia ai cadaveri esposti
Dopo la fucilazione - avvenuta alle 06:10 - a scopo intimidatorio i cadaveri scomposti furono lasciati esposti sotto il sole della calda giornata estiva, coperti di mosche, fino alle ore 20 circa. Un cartello li qualificava come "assassini". I corpi, sorvegliati dai militi della Muti che impedirono anche ai parenti di rendere omaggio ai defunti, furono pubblicamente vilipesi e oltraggiati in tutti i modi dai fascisti e dalle ausiliarie della RSI; inoltre, per intimidire la popolazione e togliere ogni appoggio alla Resistenza, i cittadini in transito, a piedi, in bicicletta o sui tram, furono obbligati, armi alla mano, ad assistere allo «spettacolo».
Il poeta Franco Loi, testimone della tragedia e allora abitante nella vicina Via Casoretto, ricorda:
« C'erano
molti corpi gettati sul marciapiede, contro lo steccato, qualche
manifesto di teatro, la Gazzetta del Sorriso, cartelli, banditi! Banditi
catturati con le armi in pugno! Attorno la gente muta, il sole caldo.
Quando arrivai a vederli fu come una vertigine: scarpe, mani, braccia,
calze sporche; (...) ai miei occhi di bambino era una cosa inaudita:
uomini gettati sul marciapiede come spazzatura e altri uomini, giovani
vestiti di nero, che sembravano fare la guardia armati! » |
(Franco Loi, da R. Cicala (a cura di), Con la violenza e la pietà. Poesia e resistenza, Interlinea, Novara, 1995. ISBN 88-86121-56-3.) |
L'esecuzione e il vilipendio dei cadaveri impressionarono profondamente l'opinione pubblica tanto che il Prefetto di Milano e capo della Provincia Piero Parini nel suo «Pro memoria urgente per il duce» annota «... il modo della fucilazione era stato quanto mai irregolare e contrario alle norme. I disgraziati non avevano neppure avuto l'assistenza del sacerdote, che non si nega neppure al più abbietto assassino. ... Alle mie rimostranze, i comandanti nazisti hanno risposto tutti allo stesso modo: l'esecuzione era stata un'applicazione del bando del Maresciallo Kesselring ... L'impressione in città perdura fortissima e l'ostilità verso i tedeschi è molto aumentata. Vi sono stati anche scioperi parziali in alcuni stabilimenti e corre voce che se ne prepari uno domani.... Non Vi nascondo che mi sento profondamente a disagio nella mia carica, giacché il modo di procedere dei tedeschi è tale da rendere troppo difficile il compito di ogni autorità e determina una crescente avversione da parte della popolazione verso la Repubblica».
A seguito del pro memoria, Mussolini comunicò all'ambasciatore tedesco presso la RSI, Rudolf Rahn, che i metodi utilizzati dai militari tedeschi «erano contrari ai sentimenti degli italiani e ne offendevano la naturale mitezza». Meno di un anno dopo, all'alba del 29 aprile 1945, sullo stesso piazzale furono esposti i cadaveri di Mussolini, di Claretta Petacci e di altre 15 persone, tutti alti gerarchi fascisti, giustiziati dopo la cattura a Dongo.
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