lunedì 9 dicembre 2013

Essere operaio in una colonia israeliana

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Articolo da Osservatorio Iraq

Il 95% della Valle del Giordano, ad est della Cisgiordania occupata, è sotto controllo militare israeliano. 80 mila palestinesi vivono lì, principalmente in piccoli villaggi. Spesso costretti ad abbandonare le loro terre, lavorano come operai agricoli nelle colonie israeliane. La testimonianza di un volontario internazionale descrive le loro disastrose condizioni di lavoro, tra divieti di rivendicazioni e la concorrenza creata tra lavorati migranti.

di Ouessale El Assimi*

Nella Valle del Giordano, ad est della Cisgiordania, vige una legge ottomana ripresa da Israele, valida per tutti i Territori Occupati: ogni terreno che non sia stato coltivato per un periodo della durata di 3 anni diventa di proprietà dello Stato (1).
Le ragioni per ‘abbandonare’ le terre, d’altra parte, in Palestina non mancano.
Il clima desertico ha reso l’acqua una risorsa fondamentale per l’agricoltura, ma i palestinesi non hanno il diritto di costruire pozzi, ne’ di rimettere in funzione quelli, pur non abbastanza profondi, costruiti in epoca ottomana.
La pressione dell’agricoltura industriale coloniale devasta le risorse naturali: impossibile trovare acqua dolce a meno di 300 metri di profondità a causa dell’erosione e della salinizzazione delle sorgenti sotterranee. Il Giordano è stato praticamente cancellato, il suo volume non rappresenta più del 5% di quello che aveva negli anni Cinquanta. Il fiume raggiunge difficilmente il Mar Morto, che ha perduto un terzo della sua superficie nello stesso lasso di tempo.
L’attaccamento alla rete elettrica è vietato, così come qualsiasi tipo di costruzione: la popolazione locale è costretta quindi ad acquistare e trasportare l’acqua potabile nei villaggi, venduta ai palestinesi ad un prezzo cinque volte superiore rispetto ai coloni (israeliani, ndt), per quanto sia pompata all’interno degli stessi Territori Palestinesi, e controllata dalla compagnia israeliana Mekorot. 
Il 45% delle terre della Valle del Giordano sono classificate come “zone militari”, il 20% sono “riserve naturali”, in entrambe i casi si tratta di aree minate. Per recuperarle, quando è possibile, i palestinesi devono pagare delle somme che eccedono di gran lunga il valore del loro stesso bestiame, e spesso rischiano l’arresto senza processo. In nome della “protezione della natura”, di recente l’esercito ha dato alle fiamme centinaia di ettari di terreno per “regolare” il problema dei pascoli non autorizzati.

Dal lato sbagliato della strada n. 90 
I palestinesi nella maggior parte dei casi non detengono titoli di proprietà: queste terre erano classificate in base alle leggi ottomane e giordane sull’utilizzo collettivo, e non sono riconosciute dallo Stato di Israele (2). Non passa quindi una settimana senza che una casa o un campo beduini siano distrutti, ordine di demolizione militare alla mano.
Chi ha ancora un pezzetto di terra da coltivare, si trova nella maggior parte dei casi “dal lato sbagliato della strada n. 90”, riservata ai coloni. I palestinesi non hanno il diritto di attraversarla per raggiungere i loro campi se non dalle 6 del mattino alle 6 del pomeriggio.
I terreni agricoli sono circondati dalla no man’s land, una zona minata e attraversata da diverse barriere, che include il letto del fiume Giordano e impedisce l’accesso alla frontiera giordana, a 8 chilometri di distanza. Nel letto del fiume si possono vedere le porzioni di terra coltivate dai coloni sin dal 1967, quando Israele occupò questa piccola ma cruciale striscia di terra, dove oggi vivono 9.400 israeliani, in 37 insediamenti.
L’estrema povertà di agricoltori e beduini, le ricorrenti aggressioni dei coloni più estremisti così come l’obbligo di importare tutti gli strumenti agricoli imposto dall’occupante, impediscono ai palestinesi di coltivare le loro terre, dunque di mantenerle.
C’è anche chi si è ritrovato a lavorare nelle serre, nei campi, nei palmeti e nei centri di imballaggio dei coloni.
Tutti questi lavoratori, senza alcuna eccezione, sono agricoltori e abitanti dei piccoli villaggi della Valle che non hanno più terra o non hanno più i mezzi per coltivarla, quindi il reddito necessario per mantenere le proprie famiglie.

Lavorare nelle colonie
Nella Valle del Giordano oltre 7mila palestinesi, di cui il 10% donne e un altro 10% minori, lavorano all’interno delle colonie in modo permanente. Tra i mesi di giugno e ottobre, durante la raccolta di datteri e uva – le maggiori monocolture di esportazione insieme ai legumi d’estate – arrivano fino a 20 mila.
A volte vengono da lontano: da Nablus come da Jenin o da Tubas, e l’85% di loro passa dai 30 ai 90 minuti ferma ai checkpoint ogni giorno, mattina e sera, sulla strada che separa la casa dal luogo di lavoro.
La maggior parte non ha un contratto di lavoro regolare: per averne uno, infatti, è necessario ottenere un permesso di ingresso nelle colonie, rilasciato soltanto a quei palestinesi che hanno un casellario giudiziario pulito, mentre dal 1967 il 40% degli uomini è passato per un carcere militare israeliano, con o senza un regolare processo.
Una situazione che rappresenta una manna dal cielo per i coloni, affrancati da qualsiasi obbligo legale, essendo le colonie disciplinate sin dal 2007 dal diritto del lavoro israeliano (simile al nostro, ma più razzista). In caso di  contrasti sul posto d’impiego, i coloni non hanno che da proteggere “la sicurezza” ed evacuare manu miliari gli eventuali contestatori, che non potranno mai più rimettere piede nella colonia per reclamare i propri diritti.



Condizioni di lavoro disastrose 
Gli operai agricoli (palestinesi, ndt) lavorano in condizioni disastrose, fino a 18 ore al giorno, arrampicandosi sugli alberi senza sistemi di sicurezza, maneggiando ormoni, pesticidi e fertilizzanti senza protezioni, neanche rudimentali, e sottoposti a ritmi insostenibili.
Di conseguenza, gli incidenti sul lavoro sono ricorrenti, e spesso mortali.
Le ambulanze israeliane (quando vengono chiamate) si sbarazzano nella maggior parte dei casi dei feriti al checkpoint più vicino, anche se sarebbero tenute per legge a trasportarli fino in ospedale. I feriti non possono aspettarsi alcun sostegno per quanto riguarda le spese mediche, spesso proibitive da sostenere per le famiglie, non potendo quindi accedere a cure corrette senza privarsi di una parte fondamentale del proprio reddito.
Una giornata di lavoro viene pagata in media 60 shekels, circa 12 euro, meno ovviamente per donne e minori, anche se il salario agricolo giornaliero minimo – definito nel 2007 dopo anni di lotte e battaglie condotte da diverse Ong – sarebbe di 150 shekels, pari a circa 31 euro.
Ma i lavoratori si trovano stretti in una morsa, tra i coloni che non li pagano abbastanza e gli intermediari palestinesi, che fanno sparire per strada una parte del loro salario.

Gli intermediari palestinesi 
Questi intermediari sono spesso palestinesi che aprono uffici di reclutamento e di gestione delle risorse umane per conto dei coloni. Si tratta in molti casi di operai anziani, che lavorano da tempo all’interno delle colonie e che si sono guadagnati la fiducia dei loro abitanti, e il diritto di interagire direttamente con loro.
L’intermediario recluta i lavoratori a giornata, li trasporta fino al luogo di impiego (facendosi pagare dai 15 ai 30 shekels), conta le ore di lavoro (più o meno onestamente) e li paga dopo aver fatto il proprio resoconto ai coloni.
La somma che i coloni versano per pagare i salari, spesso, è insufficiente. Regolarmente, gli intermediari ne incassano una parte senza che gli operai lo sappiano, o che possano in qualche modo intervenire. Ad ogni modo è impossibile protestare: è semplicissimo per l’intermediario rimpiazzare il contestatore con un altro lavoratore.
Inoltre, la concorrenza è forte tra gli stessi intermediari. Se uno di loro dovesse presentare una richiesta di aumento di salario ad un colono, ad esempio, si dovrebbe assumere il rischio di perdere il suo cliente e l’impiego, così come gli operai che lavorano per lui: ci sarà sempre un altro intermediario disposto a mettere a disposizione manodopera meno cara, e che non si lamenti.
L’attività sindacale è vietata: l’Autorità Palestinese non ha giurisdizione sulle colonie e “l’amministrazione civile” (israeliana, ndt) non si fa carico di questi problemi. Gli eventuali scioperanti vengono immediatamente licenziati, e spesso arrestati a tempo indeterminato “per motivi di sicurezza”: ed è un fenomeno tutt’altro che recente.
Durante il periodo della seconda Intifada (3) gli scioperi furono numerosi. La conseguenza diretta fu che le restrizioni alla libertà di movimento per i palestinesi divennero ancora più stringenti.
I datori di lavoro israeliani hanno mantenuto una pressione costante sul governo perché risolvesse i problemi economici legati alla mancanza di manodopera a basso costo. Il governo alla fine ha ceduto, non riducendo le limitazioni alla libertà di circolazione per i palestinesi, ma autorizzando l’importazione di manodopera straniera.

La manodopera palestinese rimpiazzata dai talandesi 
Decine di migliaia di permessi di lavoro sono stati accordati agli stranieri per i settori della costruzione, dell’agricoltura e dell’assistenza agli anziani. Permessi di lavoro ‘etnicizzati’: ai cittadini tailandesi è riservata l’agricoltura, ai cinesi il settore edile, agli eritrei l’assistenza agli anziani.
Una presenza che ha creato concorrenza tra gli operai agricoli: oggi oltre 1.100 tailandesi lavorano soltanto nelle colonie della Valle del Giordano. L’unico “vantaggio” per i palestinesi è che questi operai, oggi, costano più di loro (circa il doppio), malgrado le sovvenzioni.
Una nuova strategia che, se ha permesso ai coloni di liberarsi dei palestinesi senza perdere troppi benefici, ha fatto esplodere la disoccupazione e l’esodo rurale nella regione. Conclusione: sempre più terre cadono sotto la scure della “legge dei tre anni”. 
Negli ultimi anni inoltre si sono moltiplicate le colonie abitate da estremisti religiosi, che non solo non si servono di lavoratori arabi, ma gli atti di violenza contro gli abitanti dei villaggi, in particolar modo bambini, si sono moltiplicati.
Allo stato attuale la situazione sembra irrisolvibile.
Solo lo sviluppo di un’agricoltura locale autonoma potrebbe fornire una soluzione al problema della protezione dei terreni palestinesi dalla colonizzazione, nella Valle del Giordano come altrove.
Ma, nonostante il colossale lavoro delle Ong palestinesi e internazionali, che cercano di mantenere intatti i villaggi, la situazione in cui versa la maggior parte dei palestinesi nella regione – e la comunità beduina in modo particolare – mostra l’urgenza di interventi di tipo umanitario.
Gli agricoltori sono intrappolati in una morsa, stretti tra la forza colonizzatrice violenta e arbitraria, e l’Autorità Palestinese, impotente e spesso al servizio del capitalismo e delle sue politiche economiche e agricole disastrose.

(1) Fino al 1917 la regione faceva parte dell’Impero Ottomano, prima di passare sotto Mandato britannico fino al 1948, quando fu proclamata la nascita dello Stato di Israele. 
(2) Lo status dei terreni agricoli in Israele è regolato da un mélange di diritto ottomano e britannico. Sotto l’Impero Ottomano, quasi tutte le terre appartenevano al Sultano che le affittava o vendeva a titolo individuale agli agricoltori. Per evitare speculazioni sui prezzi dei terreni, il Sultano aveva la possibilità di requisire le terre incolte o abbandonate per rimetterle a disposizione della comunità. Israele ha fissato il limite per decretare l’abbandono o l’incoltura a 3 anni, cosa che gli ha consentito di appropriarsi dei terreni di milioni di rifugiati in passato, e ancora oggi di quelle di chi non ha i mezzi per coltivarle. 
(3) Intifada in arabo significa “sollevazione”. Indica i due principali sollevamenti popolari di massa palestinesi. La prima, pacifica, ebbe luogo tra il 1987 e il 1994. La seconda, più violenta, si è svolta tra il 2000 e il 2005. 

*Ouessale El Assimi è un attivista dell’associazione Échanges et Partenariats (E&P). 

**La traduzione dell’articolo è a cura di Cecilia Dalla Negra. Per la versione originale pubblicata su Bastamag.net clicca qui.

Fonte: Osservatorio Iraq


Autore: Ouessale El Assimi - traduzione a cura di Cecilia Dalla Negra

Licenza: Copyleft


Articolo tratto interamente da Osservatorio Iraq


Photo credit Beivushtang at the English language Wikipedia [GFDL or CC-BY-SA-3.0], from Wikimedia Commons

2 commenti:

  1. Purtroppo caro Cavaliere è una triste realtà!!!
    Tomaso

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  2. Ma che vergogna! E tutto è passato sotto silenzio dai media più noti.

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