Articolo da Doppiozero
Si è usi circoscrivere il boom o miracolo economico tra il 1958 e il 1963, anni nei quali fenomeni fino ad allora in stato di incubazione esplodono in tutta la loro virulenza. Il quadro politico, a parte la vistosa eccezione del governo Tambroni – monocolore DC sostenuto dall’appoggio monarchico e missino che insanguina l’Italia nella primavera-estate del 1960 –, registra il progressivo avvicinamento del PSI all’orbita democristiana, offrendo uno sfondo quieto alla grande trasformazione dell’Italia da nazione proto-industriale a nazione moderna (tenendo conto di tutte le insidie che questo aggettivo nasconde).
Qualche dato ci aiuta a riflettere: nel 1962 gli abitanti di Torino aumentano del 35,5%, arrivano cioè oltre 66.000 persone, gli abitanti di Milano aumentano del 36,6%, con l’arrivo di 118.000 persone. Nello stesso 1962 il Mezzogiorno perde il 12,2% della popolazione pari a circa 226.000 persone.
Nel 1958 vengono prodotte 369.000 automobili, 10.000 lavatrici, 500.000 frigoriferi, nel 1963 le automobili divengono 1.105.000, le lavatrici 1.263.000, i frigoriferi 2.187.000.
Bastano questi pochi dati per comprendere che l’Italia del 1963 è una nazione profondamente nuova. Le grandi città del Nord vedono sorgere nella propria cintura periferica casupole irregolari (a Milano sono le “Coree”), invasi i propri centri storici da immigrati meridionali, divisi al loro interno da profonde differenze culturali (l’agricoltore del Tavoliere delle Puglie è evidentemente diverso dal contadino della Calabria silana). Lo shock è fortissimo; si può dire che per la prima volta gli italiani si incontrano tra loro. Si incontrano e non si piacciono: a Torino è messa in atto una vera e propria segregazione nei confronti dei meridionali.
Qualche dato ci aiuta a riflettere: nel 1962 gli abitanti di Torino aumentano del 35,5%, arrivano cioè oltre 66.000 persone, gli abitanti di Milano aumentano del 36,6%, con l’arrivo di 118.000 persone. Nello stesso 1962 il Mezzogiorno perde il 12,2% della popolazione pari a circa 226.000 persone.
Nel 1958 vengono prodotte 369.000 automobili, 10.000 lavatrici, 500.000 frigoriferi, nel 1963 le automobili divengono 1.105.000, le lavatrici 1.263.000, i frigoriferi 2.187.000.
Bastano questi pochi dati per comprendere che l’Italia del 1963 è una nazione profondamente nuova. Le grandi città del Nord vedono sorgere nella propria cintura periferica casupole irregolari (a Milano sono le “Coree”), invasi i propri centri storici da immigrati meridionali, divisi al loro interno da profonde differenze culturali (l’agricoltore del Tavoliere delle Puglie è evidentemente diverso dal contadino della Calabria silana). Lo shock è fortissimo; si può dire che per la prima volta gli italiani si incontrano tra loro. Si incontrano e non si piacciono: a Torino è messa in atto una vera e propria segregazione nei confronti dei meridionali.
Il numero di automobili ed elettrodomestici sta ad indicare che si
afferma quasi improvvisamente il consumo, agente massimo del cambiamento
degli stili di vita. Cambiano gli interni delle case, in particolare la
cucina; tra gli elettrodomestici spicca la televisione (cavallo di
Troia del consumo), cambia il modo di vestirsi, nasce il tempo libero
(il week-end), cambia la dieta (per la prima volta si ha la possibilità
di mangiare carne tutti i giorni), cambia la lingua (dal dialetto al
neoitaliano). Il consumo diviene l’elemento unificante del paese, il
segnale di riconoscimento per le diverse classi sociali; si può arrivare
a dire che il consumo, laicizzando la società, si sostituisce
all’educazione e alla pratica religiosa. Inutile soffermarsi qui sulle
storture prodotte dalla società dei consumi: l’essenziale è comprendere
che l’affermazione della modernità in Italia è guidata dal consumo.
Anche il nucleo familiare e i rapporti generazionali, seppur meno
bruscamente, stanno modificandosi. Chi ha vent’anni negli anni Sessanta
sperimenta su di sé gli effetti della modernizzazione: una maggiore
indipendenza economica rende i giovani meno vincolati all’istituzione
familiare; si viene così a creare lentamente un gap tra generazioni. Le
necessità occupazionali riportano, dopo gli anni di guerra, la donna nei
luoghi di lavoro, istituendo nuove o più allargate forme di solidarietà
femminile. L’introduzione della pillola anticoncezionale, successiva di
qualche anno, è il viatico verso la conquista della libertà sessuale.
Per i giovani meridionali la migrazione verso il Nord significa anche l’affrancamento dall’autorità degli anziani, la possibilità di creare una famiglia dove la donna stia a casa e non aiuti più nel lavoro agricolo. Anche il lavoro si modifica: mentre si raggiunge l’occupazione piena, rinasce, dopo la bonaccia degli anni ’50, la conflittualità sindacale: si quadruplicano le ore di sciopero, i salari aumentano, nel 1963, del 14,5%.
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Fonte: Doppiozero
Autore: Alberto Saibene
Licenza:
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia.
Articolo tratto interamente da Doppiozero
Per i giovani meridionali la migrazione verso il Nord significa anche l’affrancamento dall’autorità degli anziani, la possibilità di creare una famiglia dove la donna stia a casa e non aiuti più nel lavoro agricolo. Anche il lavoro si modifica: mentre si raggiunge l’occupazione piena, rinasce, dopo la bonaccia degli anni ’50, la conflittualità sindacale: si quadruplicano le ore di sciopero, i salari aumentano, nel 1963, del 14,5%.
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grazie della segnalazione dell'articolo molto interessante, i numeri hanno un significato decisamente
RispondiEliminaQuante cose sono cambiate in quel periodo, è stata una vera rivoluzione sotto molti aspetti...ma anche adesso c'è aria di cambiamento e non sempre in meglio, purtroppo!
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