Articolo da Open Migration
La responsabilità per quel naufragio, nel quale morirono quasi 400 persone, è andata solo all'equipaggio di un peschereccio e al presunto scafista che guidava l'imbarcazione. Ma ci sono anche tanti aspetti da chiarire: dalla possibile presenza di altre navi militari italiane, fino al tempismo nei soccorsi. Ne scrive Lidia Ginestra Giuffrida, quando si avvicina il 3 ottobre e gli 11 anni da quella strage.
Le fiamme, poi il fumo, lo sbilanciamento dell’imbarcazione e in pochi secondi più di 400 corpi finirono in mare. Da lì solo acqua, sale e gasolio, una miscela terribile in mezzo alla disperata lotta per la sopravvivenza, dove c’era anche chi, per non morire, buttava in mare qualcun altro. Erano circa le 3 e mezza del mattino del 3 ottobre del 2013. A pochi metri dall’isola di Lampedusa si stava consumando una delle più grandi tragedie del nostro tempo che provocò la morte accertata di 368 persone e circa venti presunti dispersi.
Quella notte, il barcone salpato da Misurata due giorni prima, non era da solo in mare. Prima che si consumasse la tragedia, dal peschereccio i naufraghi avevano avvistato due luci: una veniva dal mare e un’altra dal porto. Dal porto, secondo i racconti dei superstiti e le loro dichiarazioni in tribunale, venne comunicato loro che alle 8 sarebbe tornato qualcuno a prenderli. La seconda luce era dell’Aristeus, il peschereccio, i cui membri dell’equipaggio vennero in seguito condannati per omissione di soccorso in primo grado nel 2020. L’Aristeus aveva infatti effettivamente incrociato il barcone in difficoltà, seguendo un percorso anomalo, e dopo aver stazionato nei pressi dell’imbarcazione per 45 minuti decise di rientrare in porto. Vedendo andare via le due uniche speranze di salvezza, e credendo che non si fossero realmente accorti di loro, uno dei presunti scafisti decise di incendiare una coperta per attirare l’attenzione. Questo fu l’inizio della fine, lo sbilanciamento dell’imbarcazione e il suo ribaltamento.
Solo un anno fa la sentenza è stata confermata, il primo dicembre 2023, quando è stata riconosciuta la piena responsabilità degli imputati. L’ultimo atto di quel drammatico processo termina più di dieci anni dopo il naufragio con la conferma della ricostruzione da parte del tribunale di primo grado: sei anni di carcere per il capitano dell’Aristeus e la riduzione a un anno e otto mesi (invece degli iniziali quattro) per il resto dell’equipaggio, in quanto considerato subordinato alle decisioni del capitano. La motivazione definitiva del mancato soccorso da parte del peschereccio emersa di fronte al tribunale di Agrigento fu che, essendo vicini alla costa, i pescatori pensarono che la guardia costiera sarebbe arrivata; loro erano carichi di pescato e avendo un orario prestabilito per scaricarlo nei tir, ritennero che se avessero ritardato il rientro in porto avrebbero rischiato di perdere in parte o del tutto il ricavato. Circostanza questa in cui l’Aristeus si era già trovato qualche tempo prima quando, dopo essersi fermato nei pressi di un altro barchino sovraffollato in difficoltà in attesa che arrivassero i soccorsi, perse tutto il ricavato della pesca.
“Dalla ricostruzione del tribunale di Agrigento nacquero tre filoni di inchiesta” – spiega l’avvocato Gaetano Pasqualino che si occupò della vicenda sin dall’inizio – “uno era quello che ha condannato nel 2017 Khaled Bensalem, 42 anni, tunisino di Sfax, per favoreggiamento dell’immigrazione illegale, naufragio e omicidio plurimo, e costretto a pagare una multa di dieci milioni. Bensalem era il presunto scafista che aveva incendiato la coperta a bordo causando lo sbilanciamento e il ribaltamento dell’imbarcazione. Il secondo era quello relativo ai tracciati ais – il sistema nautico di identificazione e tracciamento – dell’Aristeus, che lo scorso dicembre condannò il capitano e l’equipaggio” continua. “L’ultima linea di indagine era quella che avrebbe dovuto accertare un’eventuale responsabilità in capo alle forze dell’ordine o della capitaneria, indagine mai sfociata in alcun processo”.
Al termine della sentenza del 2020 il giudice del tribunale di Agrigento scrisse “del tutto indimostrato è l’assunto secondo cui abbiano avuto un ruolo, o meglio, una responsabilità gli uomini in forze presso la locale capitaneria di porto della guardia costiera”. Da un punto di vista giudiziario la storia sembra, quindi, essere stata chiusa con la condanna dei due scafisti (insieme al quarantaduenne tunisino fu riconosciuto dai sopravvissuti e condannato, sempre nel 2017, anche Mouhamud Elmi Muhidin, di origine somala e sbarcato a Lampedusa qualche giorno dopo la strage), del Comandante dell’Aristeus Matteo Gancitano, del suo vice Vittorio Cusumano e dei cinque membri dell’equipaggio. Ma la ricostruzione ufficiale dei fatti lascia in sospeso, ancora oggi, testimonianze che raccontano di ritardi nei soccorsi e presenze di altri assetti in mare, mai chiariti.
“La seconda imbarcazione che i migranti dichiarano di aver visto prima della tragedia, li avrebbe informati che alle 8 sarebbero arrivati rinforzi a salvarli. Si trattava di un’imbarcazione con dei grandi fari, hanno raccontato i superstiti, e che non era tracciata dall’ais, il che fa pensare che si trattasse di un’imbarcazione militare. Tra l’altro, alle 8 del mattino, ci sarebbe stato il cambio turno dei militari in capitaneria. Quella notte c’erano stati davvero tantissimi interventi quindi si può ipotizzare, ma senza nessun riscontro negli atti, che l’equipaggio fosse stanco e abbia prorogato alla mattina dopo l’intervento”, racconta l’avvocato Pasqualino.
A queste ipotesi si sommano i racconti dei pescatori della Gamar che effettuarono i primi soccorsi all’alba del 3 ottobre. Vito Fiorino era a bordo del peschereccio e nella sua ricostruzione di quella notte, che è stato costretto a ripetere all’infinito, emergono due punti fondamentali: uno riguarda il sospetto che l’altra imbarcazione avvistata dai sopravvissuti e non tracciata dall’ais, fosse della guardia di finanza e, il secondo, quello di un ritardo nei soccorsi da lui chiamati.
Secondo la ricostruzione di Fiorino, poi confermata in tribunale anche da Alessandro Marino e Linda Barocci che erano con lui a bordo della Gamar, intorno alle 2 e mezza del mattino i pescatori avvistarono circa ad un chilometro di distanza una luce blu che Fiorino definisce “come quelle sulle motovedette o sulle navi militari”, e che rimase per un bel po’ ferma prima di rientrare in porto. L’orario in cui Fiorino e il suo equipaggio avvistarono in lontananza quella luce coincide con il rientro in porto di un pattugliatore classe Zara della Guardia di finanza che aveva a bordo 276 profughi.
Il secondo sospetto, mai verificato, riguarda un eventuale ritardo nei soccorsi arrivati intorno alle 7 e mezza nel luogo della strage. Fiorino nella sua deposizione in tribunale dice che la prima chiamata fatta ai soccorsi fu alle 6:30 ma che fino alle 7:20 non apparve nessuno. Per questa sua deposizione subì delle intimidazioni da parte del comandante della capitaneria di porto che sosteneva che la prima chiamata risultante dai tabulati risalisse alle 7 e un minuto. “Non sono mai stati smentiti gli atti intimidatori nei confronti di Fiorino, ma dalle registrazioni che sono state apposte e che noi stessi abbiamo ascoltato, la prima chiamata risulta alle sette e qualcosa”, dichiara ancora l’avvocato.
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Fonte: Open Migration
Autore: Lidia Ginestra Giuffrida
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Articolo tratto interamente da Open Migration
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