sabato 4 giugno 2016
Quando gli operai rischiano di morire due volte
Articolo da Il lavoro culturale
Sostanze tossiche. Industrie. Un numero sospetto di morti. Troppi. I famigliari dei lavoratori scomparsi e le associazioni denunciano, si mobilitano. Gli inquirenti partono con le indagini: raccolgono prove scientifiche, soprattutto epidemiologiche; sono necessarie per capire se può iniziare un processo penale a carico dei responsabili di aziende che quelle sostanze tossiche producono. È in questo modo che sono iniziati processi come quello dell’Eternit, dell’Ilva, della Franco Tosi di Milano, della Montedison di Mantova, Crotone e Brindisi, della Fincantieri di Palermo. In questo modo inizierà, forse, quello alla Tirreno Power di Vado Ligure. I processi per disastro ambientale e omicidio colposo plurimo sono però troppo spesso finiti in un nulla di fatto, cancellati dalla prescrizione.
Uno dei pochi casi in cui è stata fatta giustizia, è il processo per incidente sul lavoro conclusosi il 14 maggio scorso con la condanna di sei dirigenti della Tyssen Krupp di Torino. Sette operai erano morti dopo che un incendio scoppiato in fabbrica aveva provocato ustioni sul 95 per cento del loro corpo. In questo caso le indagini svolte da Raffaele Guariniello si erano concluse in soli 80 giorni. L’ex Pm è riuscito a provare che la morte degli operai era avvenuta a causa del completo stato di abbandono della fabbrica, ancora funzionante ma prossima a chiusura. I dirigenti, che si sarebbero presto liberati sia del sito industriale sia dei lavoratori, avevano deciso di non investire più neanche un soldo sulla sicurezza, rendendo prevedibile il rischio di un incidente anche grave. Prima di ottenere giustizia ci sono voluti otto anni e ben cinque processi ma alla fine gli imputati sono stati ritenuti responsabili di omicidio colposo plurimo con l’aggravante della colpa cosciente, per un totale di 45 anni di reclusione.
Nei casi di disastro ambientale invece, valutare le responsabilità è più difficile e richiede ancora più tempo. Prima di tutto bisogna dimostrare il nesso causale tra una determinata sostanza e una malattia come il cancro. La scienza e gli esperti in questo hanno un peso fondamentale ma è complesso risalire con certezza al momento in cui il killer silenzioso è entrato nel corpo di una persona, dato che questo male può insorgere anche dopo trent’anni. Durante il processo gli avvocati dei dirigenti sosterranno che il nesso causale non c’è o comunque che i dirigenti imputati non ne sapevano nulla perché all’epoca dei fatti non c’erano studi scientifici a dimostrarlo.
Nei processi in cui le prove scientifiche sono determinanti, la difficoltà del giudice è inoltre quella di elaborare il suo ragionamento senza farsi condizionare dalla presunta certezza della scienza.
Precisamente dieci anni fa si concludeva il processo al Petrolchimico di Porto Marghera. La tensione era tra diritto al lavoro e diritto alla vita ma anche tra diritto penale, scienza e verità storica. La Montedison aveva costruito a Porto Marghera un vero e proprio impero della chimica. Un colosso che ha causato gravissimi danni ambientali e la morte di almeno 157 operai. Durante il processo al Petrolchimico la società civile si è scontrata con i dirigenti Montedison e il presidente a capo dell’impero, Eugenio Cefis. È proprio tra 1973 e 1977, anni in cui Cefis tenta di diventare l’unico padrone della chimica italiana, che gli operai di Porto Marghera scoprono che il loro lavoro li stava ammazzando.
Nel 1972 moriva Simonetto Ennio, autoclavista del reparto CV 14-16, in cui veniva lavorato il CVM (monomero del cloruro di vinile). Gli operai entravano nelle autoclavi legati a una corda e dovevano togliere le incrostazioni battendole con gli scalpelli. Da quelle incrostazioni usciva una quantità impressionante di gas. Quando muore Simonetto nessuno collega l’angiosarcoma che lo ha ucciso a quella sostanza. Infatti, nonostante fossero in corso ricerche sulla pericolosità del CVM, non erano state rese note ai lavoratori. Gli studi sulla nocività della sostanza li aveva svolti prima il professor Luigi Viola per l’azienda Solvay e ora le svolgeva anche l’oncologo Cesare Maltoni, proprio per la Montedison. Fu Maltoni a confermare, durante un’assemblea dei lavoratori nel 1974, che Simonetto e gli altri autoclavisti avevano lavorato per anni immersi in una sostanza tossica e letale.
Gli operai di Porto Marghera però avevano raggiunto, soprattutto durante l’autunno caldo, non solo conquiste contrattuali: il polo industriale è stato una delle punte più avanzate del paese per le articolate forme di lotta che si sono levate dal basso. È dentro queste tensioni e sempre dal basso che si è fatta strada, proprio a partire dai reparti CV del Petrolchimico, una nuova rivendicazione: “La salute non si paga”.
Un altro autoclavista era Gabriele Bortolozzo, che nel 1982 era stato spostato proprio al CV 14-16. Ostinato e testardo, fu lui a portare sul tavolo dell’allora Procuratore della Repubblica Felice Casson le denunce da cui partirà il processo. Bortolozzo aveva raccolto con enorme fatica un’infinita serie di dati sui troppi colleghi che aveva visto morire. In fabbrica era solo, mal visto sia dai sindacalisti sia dai dirigenti, ma ad affiancarlo c’era Luigi Scatturin, esponente dell’associazione Medicina Democratica, fondata da Giulio Maccacaro.
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Fonte: Il lavoro culturale
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Articolo tratto interamente da Il lavoro culturale
Photo credit © Jorge Royan / http://www.royan.com.ar, via Wikimedia Commons
4 commenti:
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Ultimamente ho seguito diversi corsi sulla sicurezza sul lavoro. L'Italia, a livello di leggi, fa molto ma purtroppo nel modo sbagliato, aggiungici corruzione, mazzette e operai che se denunciano poi perdono il posto di lavoro e ti ritrovi un sacco di morti. Secondo le statistiche nonostante i cambiamenti a livello normativo la percentuale di mortalità resta ancora elevatissima. Per me questo vuol dire che nel sistema vi è una falla, tutti sappiamo dove si trova ma nessuno fa nulla per cambiare realmente le cose ed i risultati sono i morti ed i malati che le famiglie si piangono...buon weekend a presto
RispondiEliminaArgomento complesso. Dico solo una cosa, ai signori giudici e ai responsabili di queste catastrofi, vorrei che fossero obbligati, anche per poco, un mesetto, a stazionare nei reparti ospedalieri dove i lavoratori vanno a morire dopo anni di esposizione. Io l'ho fatto, per mestiere, e non per poco.
RispondiEliminae pensare che di sicurezza sul lavoro in Italia se ne "parla" dagli anni venti... perdona la facile battuta: parole ai venti!
RispondiEliminasperare nella giustizia divina è troppo poco io vorrei quella terrena, mi da fastidio quando sento di questo processi che finiscono con un non nulla, vorrei si facesse di più
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