venerdì 14 giugno 2013

Ecuador: un documentario degli indigeni sarayaku racconta la resistenza all’estrazione petrolifera

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Articolo da Peacelink 
 
Cacciare una multinazionale dal proprio territorio è possibile, così come denunciarla di fronte alla Commissione Interamericana per i Diritti Umani e veder riconosciuti i propri diritti: ce lo insegnano gli indigeni sayaraku, un popolo composto da non più di mille abitanti che abita in Ecuador, sulle rive del Rio Bobonaza, nella zona orientale del paese, in piena foresta amazzonica.

La loro storia è stata raccontata dall’attivista sayaraku Eriberto Gualinga, uno dei leader della sua comunità, che ha girato il documentario I discendenti del giaguaro, visibile in Italia grazie ad un tour organizzato nei giorni scorsi da Amnesty International che ha permesso a questa piccola comunità ecuadoriana di far conoscere la sua storia di dignità e resistenza di fronte all’invasione straniera. Tutto ha inizio nel 2002, quando un’impresa petrolifera argentina irrompe all’improvviso in territorio sayaraku: nessun abitante della comunità è stato avvisato dal governo. I militari proteggono l’impresa, che inizia a svolgere i primi sondaggi petroliferi. Eriberto filma i tentativi di estrarre il petrolio (alcuni frammenti del documentario risalgono proprio al 2002) e, durante l’incontro tenutosi a Roma, al cinema Nuovo Aquila, lo scorso 5 giugno, sottolinea che le sue riprese sono servite a bilanciare una comunicazione che fino ad allora era stata manipolata dall’impresa petrolifera e dai militari. Al contrario, i video, le fotografie e, più in generale, la tecnologia, hanno aiutato i sarayaku: nel documentario emerge più volte l’arroganza dei militari, che cercano di far spengere la telecamera a Eriberto, ma senza successo. Il documentario commuove per la fierezza dei volti dei sarayaku, con le donne in prima fila durante l’assemblea in cui viene scelta la delegazione che si recherà in Costarica per presentare la denuncia di fronte alla Commissione Interamericana per i Diritti Umani. I sarayaku rappresentano un esempio per tutti quei popoli costretti a subire lo sfruttamento delle proprie risorse naturali, ma evidenzia anche l’ambiguità dell’attuale governo di Rafael Correa. In più occasioni, nel corso dell’incontro romano, Eriberto Gualinga ha sottolineato che da Palacio de Carondelet non sono mai giunte delle scuse ufficiali alla sua comunità, né il governo si è preoccupato di far rimuovere dalla selva dove abitano i sayaraku i materiali utilizzati per gli scavi. Infine, lamenta Gualinga, Correa ha lanciato una nuova ronda petrolera, volta ad evidenziare quali sono le aree da cui è possibile estrarre il petrolio, segno che il governo non ha imparato niente dalla sentenza della Corte Interamericana per i Diritti Umani, che pure dovrebbe fare scuola per i tanti casi simili che purtroppo rappresentano la norma in tutta l’America Latina. La Corte Interamericana ha visitato il territorio sayaraku e ha toccato con mano i disastri compiuti dall’impresa argentina: si è trattato di un fatto storico perché mai la stessa Corte, prima d’ora, si era occupata di un popolo indigeno, e tantomeno aveva messo alle strette uno stato, obbligandolo ad assolvere almeno quattro punti chiave. Il primo riguarda il ritiro dell’esplosivo dal territorio abitato dalla comunità indigena. Il secondo impone all’Ecuador non solo un’ammissione di colpevolezza nei confronti dei sayaraku, ma una pubblica ammenda di fronte alla stampa e alla comunità internazionale. E ancora: l’Ecuador avrebbe l’obbligo di risarcire i sarayaku con un indennizzo significativo. Infine, lo stato doveva prendersi l’impegno di tradurre la sentenza della Corte Interamericana negli idiomi kichwa e shuar. Solo quest’ultimo punto è stato rispettato da parte di un governo che pure fa della plurinazionalità un vanto, riconosciuto anche dalla Costituzione, una delle più avanzate, ma per molti aspetti non applicata.
 
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Fonte: Peacelink


Autore: David Lifodi

Licenza: Copyleft


Articolo tratto interamente da Peacelink
 

Photo credit André Hübner [GFDL or CC-BY-SA-3.0], via Wikimedia Commons

 
 

1 commento:

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