Articolo da Filosofemme
Che spazio resta per la gioia in una società che la riduce a consumo o a dovere morale e che l’associa a una felicità da vetrina?
Il raggiungimento della felicità è un imperativo del nostro tempo, ma
la felicità che ci viene chiesta di esibire è spesso una posa e non un
sentire autentico. È la felicità obbligatoria della Happycrazia, l’ideologia del benessere che trasforma il dolore in colpa e la serenità in prodotto da acquistare.
Essere felici è diventato così un compito da svolgere secondo le regole dell’efficienza e della positività, un lavoro a tempo pieno da aggiungere a quello che già sfinisce buona parte di noi.
Quando la felicità viene rilegata entro questi confini, la
gioia si rivela come gesto di resistenza, perché la sua natura
imprevedibile, indisciplinata e disinteressata non è contemplata nel
copione sociale che ci tiene occupatə e produttivə.
L’irruzione
di una pienezza che non obbedisce a nessun obiettivo precostituito, che
non serve a nulla e non è addomesticabile, sfida qualsiasi meccanismo
di ordine e controllo.
La gioia non asseconda, ma accade.
Ed è in questo suo essere inutilmente necessaria che risiede il suo potere rivoluzionario.
Il potenziale sovversivo della gioia ha attraversato più di un secolo di pensiero femminista.
Già nei primi anni del Novecento, Emma Goldman aveva compreso che una rivoluzione che dimentica la gioia dimentica la vita. La celebre frase a lei attribuita
Se non posso ballare, la tua rivoluzione non mi interessa» (1)
riassume una prospettiva allora del tutto nuova, di una politica incarnata, in cui il corpo non è strumento ma soggetto della trasformazione e che fa del desiderio e del piacere l’anima di ogni processo di liberazione.
Da allora molte voci hanno raccolto quel filo, costruendo una sorta di genealogia della gioia ribelle.
Audre Lorde definiva l’erotico come potere, una conoscenza profonda che nasce dalla gioia di essere pienamente vivi. bell hooks ricordava che una rivoluzione che non include l’amore, la cura e la gioia non può durare. Più recentemente, adrienne maree brown, in Pleasure Activism, ha elaborato una vera e propria politica del benessere, fondata sull’idea che il piacere, la cura e la felicità condivisa non siano accessori della lotta, ma il suo cuore pulsante.
Nessuna di queste autrici ha mai confuso la gioia con l’edonismo o la fuga.
Molto
lontana dalla narrativa della positività tossica, la loro è una gioia
situata, concreta, collettiva: una forza che unisce, che cura e che
restituisce vitalità al nostro vivere insieme, opponendosi all’idea che
una società giusta nasca dal sacrificio e dalla mortificazione.
Se la gioia è una forma di resistenza, è perché, come dicevamo, l’idea dominante di felicità funziona come un dispositivo di potere.
Come mostra Sara Ahmed in The Promise of Happiness,
la felicità non è neutra: serve piuttosto a mantenere l’ordine. Ci
viene detto come dovremmo essere felici — sposandoci, lavorando,
consumando, sorridendo — e chi devia da questo modello viene accusatə di
rovinare la festa.
Ahmed chiama questo meccanismo “regime della
felicità”: un insieme di aspettative che orienta la nostra idea di vita
buona e punisce chi non si adegua.
La “femminista arrabbiata”, la
persona queer, la migrante “ingrata”, il corpo non conforme diventano
così figure disturbanti, perché mettono in crisi un sistema che pretende
di organizzare anche i nostri desideri.
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Fonte: Filosofemme
Autore: Benedetta Terranova
Licenza: 
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Articolo tratto interamente da Filosofemme







Ottime riflessioni, che condivido. Grazie.
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