lunedì 16 ottobre 2017

Non è lavoro, è sfruttamento




Articolo da La Città Futura

Non è lavoro, è sfruttamento è il libro di una giovane ricercatrice militante, Marta Fana, recentemente uscito in libreria per Laterza. Il libro è una sorta di viaggio oltre la frontiera dei diritti, lì dove si sperimentano le nuove e più radicali forme di sfruttamento, dai voucher al cottimo fino al lavoro gratuito, passando dall'alternanza scuola lavoro. Un viaggio dentro il reality del nuovo mercato del lavoro, dove non ci sono diritti, non c'è orario e non c'è luogo di lavoro, non c'è malattia e non ci sono ferie, a volte non c'è nemmeno salario. Insomma, lì dove il concetto di lavoro si dissolve in quello di sfruttamento.

Il libro è da leggere, scorre via veloce, scritto in una prosa semplice e gradevole. Mi permetto quindi una riflessione che va un po’ oltre. E un passo indietro. Cosa è lavoro e cosa è sfruttamento? Nel 1978 nel suo Dizionario di Sociologia, Luciano Gallino li definiva così. Lavoro: attività intenzionalmente diretta, mediante un certo dispendio di tempo e di energia, a modificare in un determinato modo le proprietà di una qualsiasi risorsa materiale o simbolica, onde accrescerne l’utilità per sé o per altri, con il fine ultimo di trarre da ciò, in via mediata o immediata, dei mezzi di sussistenza. Sfruttamento: vedi Capitale.

In una società capitalistica, di fatto, il lavoro è sfruttamento, cioè appropriazione più o meno indebita di parte del plusvalore prodotto. Però c'è stato un tempo in cui il lavoro era anche identità, integrazione, riconoscimento sociale e persino dignità. Efficacemente, un altro sociologo, Aris Accornero, aveva definito il Novecento il secolo del Lavoro (con L maiuscola), descrivendone poi la parabola che, sul finire degli anni ‘90 lo stava trasformando nel più prosaico termine di lavori (al plurale e con la L minuscola). Proprio quei lavori di cui parla Marta Fana 20 anni dopo, nel mercato usa e getta della precarietà assoluta.

Non è che l'operaio del Novecento fosse meno sfruttato del lavoratore precario di oggi. L'organizzazione taylor-fordista del lavoro nelle fabbriche di quei decenni non era certo meno massacrante. E nemmeno la classe operaia degli anni ‘70 andava in paradiso. Ma era protagonista, nella società, nella politica, nella cinematografia, appunto e in generale nell'immaginario collettivo. C'era una centralità del lavoro, in particolare una centralità operaia, conquistata anche con le lotte degli anni ‘70, che lo rendeva soggetto sociale e politico. A fronte di una condizione per definizione monotona e ripetitiva, la classe operaia aveva in cambio le garanzie del posto fisso, l’accesso al welfare e alla società dei consumi, la costruzione di un sistema di tutele e diritti di cui lo Statuto dei Lavoratori fu l'architrave. Piacesse o meno, alla base esisteva un compromesso, tutto interno alla società capitalistica: sfruttamento in cambio di diritti, salario e inclusione sociale.

Il punto è questo. Oggi è rimasto soltanto lo sfruttamento. Non ci sono più i diritti e lavorare non è più garanzia di inclusione né tanto meno di benessere. Si può lavorare, ma essere comunque poveri. E oggi a nessuno verrebbe in mente di cantare "chi non lavora, non fa l'amore", perché il lavoro non garantisce di per sé alcuno status. La parabola è iniziata a cavallo degli anni 80 e 90, preparata nelle fabbriche, nella politica e nell'immaginario collettivo dalla sconfitta del movimento operaio ai cancelli di Mirafiori nel 1980.


Da allora, profezie tanto apocalittiche quanto affrettate hanno portato l’opinione comune a credere che, con l'innovazione tecnologica e organizzativa, la classe operaia fosse in via di estinzione. In realtà, non sono mai spariti gli operai. Non c'è mai stata alcuna evidenza statistica di questo tipo. Sono diminuite di sicuro le grandi fabbriche fordiste e aumentate le micro-imprese artigiane. Sono entrate in massa le donne nel mercato del lavoro e sono aumentate le professionalità a basso valore aggiunto nei servizi. Ma non è mai sparito il lavoro operaio, né tanto meno lo sfruttamento. Soltanto che non aveva più il volto dell'operaio interpretato da Gianmaria Volonté nel film del 1971. 

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Articolo tratto interamente da 
La Città Futura 


10 commenti:

  1. Caro Vincenzo, credo che sia veramente un libro interessante!!!
    Ciao e buon inizio delle settimana con un forte abbraccio e un sorriso:-)
    Tomaso

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  2. Ancora più duro, caro Cavaliere, del leggerlo, dello scriverne, è il viverle queste situazioni. Ed essendo legalizzate ti ritrovi schiacciato e impotente, soprattutto in realtà dove non esiste "nulla".

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  3. C'è sfruttamento anche perché nessuno si impegna a lottare per i diritti. C'è troppa rassegnazione e acquiescenza. Mancano i leader, è vero ma anche quella forza e quell'impegno che deve nascere dalla base dei lavoratori. Sergente Elias (http://ricominciaredatre.blogspot.com)

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  4. Bellissimo articolo e libro che deve essere molto interessante. E' vero, non è lavoro è sfruttamento con l'aggravante che si tratta di uno sfruttamento precario perché possono anche lasciarti a casa. E' vero così non ti sfruttano ma ti lasciano morire di debiti e di fame.

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  5. Come dirlo per l'ennesima volta. Anticamente dicevano che il lavoro era ciò che dava orgoglio ad una persona.
    Questo tipo di lavori che non sono lavori onesti ma sono un modo per sfruttare giovani e persone sopra i 35/40 anni, si crea solo un senso di insoddisfazione e di poca considerazine di sè stessi nei lavoratori.
    Questo tipo di lavori sono l'inferno dei nostri tempi - un inferno in terra !

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