martedì 21 febbraio 2017

Brescia: una terra inquinata dai veleni industriali

Vista dal castello (brescia ovest) - panoramio

Articolo da Internazionale

Sul terreno dei giardinetti è vietato giocare. “Zona inquinata soggetta a divieti”, avverte un cartello. I disegnini dicono di non buttarsi sull’erba, non raccogliere fiori e foglie, non giocare con la terra e non toccarla. Cartelli simili sono disseminati nei giardini pubblici della zona sud di Brescia, in quartieri come Primo Maggio e Chiesanuova. Sono là da anni, c’è chi vedendoli sussulta e chi non ci fa più caso. Ricordano che quei terreni sono intrisi di diossine e di pcb, policlorobifenili, composti chimici altamente tossici e cancerogeni. Un pericolo subdolo, non si vede. È l’eredità di decenni di attività dello stabilimento chimico Caffaro, vecchio impianto situato un paio di chilometri a ovest di piazza della Loggia, il cuore della città.

In altre parole Brescia, una delle città più benestanti della ricca Lombardia, è anche uno dei siti industriali più inquinati d’Italia. Terreni e falde idriche sono contaminati da un mix di pcb, diossine, solventi clorurati, benzene e altre sostanze pericolose, tanto che nel 2002 il ministero dell’ambiente ha riconosciuto l’emergenza ambientale e ha designato quello di Brescia-Caffaro come un Sin, sito di interesse nazionale per la bonifica.

Da allora ripetute indagini hanno mostrato che pcb e diossine sono entrati fino nel sangue dei bresciani e forse nel latte materno. Un disastro ambientale. Eppure nei quindici anni passati da allora non è successo molto; salvo piccoli interventi, la bonifica è da fare. È questo a fare di Brescia un caso paradossale.

Faccenda chiusa

Imbocchiamo via Milano in direzione ovest, lasciandoci alle spalle il centro storico. Quando è sorta, nel 1906, la Caffaro lavorava sale e cloro per fabbricare soda caustica e altri composti. Allora la fabbrica era considerata in periferia, borgo San Giovanni, zona agricola appena oltre il cimitero municipale. Ma siamo a meno di un chilometro dalla cinta esterna del centro storico, e già allora qui c’erano alcune case, la chiesa, e una scuola elementare addossata al muro di cinta. A volte dalla fabbrica uscivano zaffate di gas, “i bambini non potevano respirare e dovevano scappare con gli insegnanti”, dice Marino Ruzzenenti, storico che ha studiato l’industrializzazione italiana dal punto di vista dell’impatto sull’ambiente. I campi dietro la fabbrica sono stati letteralmente bruciati dalle esalazioni di soda e cloro: “L’azienda comprò il terreno, e la faccenda fu chiusa”.


I problemi si sono complicati quando la Caffaro ha cominciato a lavorare i composti organici del cloro, negli anni trenta. Produceva ddt, poi lindano (insetticidi in seguito vietati, perché tossici). Ha lavorato cloro, mercurio, arsenico, tetracloruro di carbonio. Soprattutto, tra il 1938 e il 1984 ha prodotto pcb, composto brevettato dalla Monsanto negli Stati uniti negli anni trenta, allora molto usato nell’industria: per le sue proprietà chimico-fisiche era un ottimo lubrificante e un isolante termico. Che fosse nocivo si è capito poi, quando sono comparsi casi di intossicazione tra i lavoratori. Nel 1972 i pcb sono stati messi al bando in Giappone; nel 1976 la Monsanto, proprietaria del brevetto, ha smesso di produrli. Negli anni seguenti i pcb sono stati vietati un po’ ovunque e infine nel 1983 anche in Italia. Solo allora lo stabilimento di Brescia ha smesso di fabbricarli. 

Intanto però la Caffaro, nel frattempo assorbita dalla Snia, aveva disperso tonnellate di pcb. In tutti quegli anni aveva scaricato i suoi reflui nel terreno e nelle canaline di scarico che buttavano direttamente nelle rogge, i fossati o piccoli canali artificiali che irrigano questa provincia padana. I pcb non si eliminano facilmente (non per nulla sono uno degli “inquinanti organici persistenti”, pop nell’acronimo in inglese, messi al bando dalla convenzione di Stoccolma nel 2001). Non sono biodegradabili, non si sciolgono in acqua, non sono facilmente infiammabili; invece sono liposolubili, si sciolgono negli oli e nei grassi.

Così, anche se non sono più prodotti da oltre trent’anni, i pcb continuano ad avvelenare Brescia e le campagne vicine. Si sono fissati nei sedimenti delle rogge e hanno “viaggiato” a sud dello stabilimento. Sono entrati nella catena alimentare: mangiati dal bestiame attraverso il foraggio e le granaglie, fissati nei tessuti grassi e nel latte di mucca prodotto nelle cascine circostanti. A ogni passaggio si concentrano sempre di più – si chiama “bioaccumulo”. E in cima alla catena alimentare ci sono gli esseri umani, che assorbono pcb sia attraverso gli ortaggi, sia da latte, uova o carne di animali che li hanno a loro volta mangiati. 

Le diossine nella catena alimentare

Di tutto questo però non si parlava, allora. Il “caso” Caffaro è scoppiato molto tempo dopo, nel 2001, quando Marino Ruzzenenti ha pubblicato un voluminoso libro sulla storia dello stabilimento bresciano. Analizzando i dati dell’azienda e quelli delle autorità sanitarie, lo storico sosteneva che durante la sua attività la Caffaro aveva disperso qualcosa come cento tonnellate di pcb e grandi quantità di diossina, sostanze la cui tossicità si misura in microgrammi. Poco dopo, un grande quotidiano ha titolato che a Brescia c’era “una Seveso bis”. Il riferimento al disastro dello stabilimento Icmesa, alle porte di Milano, dove nel 1976 l’esplosione di un impianto aveva lasciato uscire tra 15 e 18 chili di diossina del tipo più tossico, ha fatto sobbalzare i bresciani.

Quello di Seveso è riconosciuto come uno dei più gravi disastri industriali mai registrati in Europa: e là si trattava di chili, a Brescia di tonnellate. 

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Fonte: Internazionale


Autore: 
Marina Forti

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Articolo tratto interamente da Internazionale 



Photo credit simo93bs [CC BY-SA 3.0], attraverso Wikimedia Commons



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