sabato 26 maggio 2018

Una società conformista



Articolo da Filosofia in movimento

(da: S. Bisi, La maggioranza sta. I conformisti del XXI secolo, Bordeaux 2017)

In un universo culturale in cui tutti cercano di distinguersi, di apparire diversi, unici e originali esistono ancora i conformisti? Sì, e in gran quantità dato che costituiscono la maggioranza degli appartenenti a ogni società, compresa la nostra. Le società cosiddette avanzate però sono estremamente complesse, pertanto su un tema come il conformismo le risposte non possono limitarsi a secche alternative. Occorre ragionare, argomentare basandosi essenzialmente sull’osservazione diretta della vita quotidiana, un’osservazione che mi ha portato a dirigere lo sguardo sociologico sulle persone che frequentano quei luoghi più di recente diventati parte rilevante del sociale, fino ad assumere loro stessi un significato simbolico, non tanto utilitaristico quanto identitario: dal mercato rionale all’aeroporto, dalle boutique ai centri commerciali, dagli studenti dell’università ai circoli del tennis, dalle palestre ai centri estetici, dai luoghi della movida alle spiagge.

Ho cercato di “leggere” oltre l’apparenza la maggioranza, cioè quelle donne e quegli uomini a cui è stato insegnato che “da noi” la felicità è un diritto, che il nostro modello di vita non è esportabile, che nell’agire conforme – e cioè nella logica mercantile che distingue la nostra società occidentale – avrebbero trovato qualcosa di più di un appagamento effimero, momentaneo. Una maggioranza poco incline a occuparsi degli altri, dei diversi, una maggioranza che vive in conformità con il modello sociale dominante senza vederne incoerenze e contraddizioni, “coltivando tranquilla l’orribile varietà delle proprie superbie”, nelle parole di Fabrizio De André.

Come agisce, cosa fa per gratificare se stessa? Dove guarda, in cosa crede, come agisce?
Noi: noi italiani, noi europei, noi americani…. noi giapponesi, noi cinesi, e chissà quanti altri pronti a diventare come noi, condividiamo i modelli di vita, i valori positivi (enfasi sul successo) e i valori negativi (stigma dell’insuccesso), gli oggetti della felicità (i vari gadget), le lecite aspirazioni (fare danaro), felici di consumare (i non consumatori sono i nuovi devianti, o i nuovi impuri, come li ha chiamati Bauman), timorosi di chi attenta al nostro benessere (difendiamoci anche con le guerre preventive), sempre pronti a scambiare la libertà (degli altri) con la sicurezza (nostra).

Fatalmente, anche le persone finiscono per assomigliarsi. In un sistema che sempre più si caratterizza per le reciproche interdipendenze, assistiamo a un processo di identificazione, una tendenza generale all’omologazione di abiti mentali e comportamenti, che ci rende simili da un capo all’altro del mondo.

Mentre dovrebbero esserci meno alibi rispetto al passato, ci troviamo di fronte a un paradosso: proprio nel momento storico in cui è smisuratamente aumentata la possibilità di essere informati su tutto o quasi tutto, proprio in questa epoca caratterizzata da un ininterrotto e quotidiano viaggiare di notizie e conoscenze che dovrebbero rendere più comprensibile il concetto di “complessità”, accade il contrario. Potremo sottoscrivere quanto ha detto Cornelius Castoriadis, una voce forte contro il conformismo generalizzato e la montée de l’insignifiance: questa è l’epoca del “non-pensiero”[1]. Questa società “liquida” – che meglio sarebbe definire “smarrita” – non riesce infatti neppure a comprendere appieno la propria storia e il proprio cammino.

Il contesto non solo non aiuta, non stimola, non incoraggia a pensare ma di fatto, con vari accorgimenti e l’uso sapiente dei media e della pubblicità, non offre neanche il doveroso stimolo e incoraggiamento a farlo. L’uomo nuovo, l’uomo occidentale del XXI secolo, dovrebbe essere emancipato, dovrebbe avere acquisito istruzione e cultura, invece sembra essere sempre meno stimolato e stimolante e sempre più oscillante tra aggressività, rabbia e inerme accettazione.

Crisi economiche, catastrofi naturali, guerre e attentati si susseguono. Media e social network ci aggiornano ventiquattrore su ventiquattro. Noi partecipiamo a questi drammi postando la notizia su Facebook, commentando con faccine piangenti, o con un tweet, aderendo a raccolte di denaro digitando un numero di telefono o via web. Bastano però pochi giorni o al massimo qualche mese perché tutto venga digerito ed espulso. Perché lo sguardo ritorni a fluttuare nel raggio corto del proprio entourage.

La domanda che in un certo senso identifica il post moderno, domanda inevasa, recita: cosa resta, ora che tutte le grandi narrazioni sono evaporate? Resta solo l’idolo narcisistico della crescita e dell’espansione, restano i “post”, cioè quelli che non sono più comunisti, fascisti, padri eccetera[2]. Resta la promessa di felicità, quella felicità dell’uomo moderno, coniata ironicamente da Fromm, che si esprime nel guardare le vetrine (o i siti commerciali online) e nel comprare tutto quello che si vuole in contanti o a rate[3]. Quei beni materiali oggetto del desiderio da soddisfare a ogni costo: pensiamo all’assurdità dei tanti che in religiosa fila aspettano dall’alba l’apertura dei negozi per acquistare e sostituire il vecchio Iphone con l’ultimo modello. Un fenomeno che si ripete in molti luoghi del mondo, a conferma della globalizzazione del desiderio, e pazienza se per averlo si debba spendere mezzo stipendio: un attimo di felicità condivisa per un oggetto il cui valore cala nel giro di un mese.

E questo mentre è in atto una crisi economica di vasta portata, una crescita della disoccupazione che ha ridotto i redditi e quindi la capacità di consumo. Nel caso Italia ci si può riferire alla lettura delle elaborazioni fatte dal Censis sulla base dei dati Istat e Gira, sui consumi alimentari. Si constata l’evoluzione delle patologie del benessere motivata dalle differenze nell’acquisto di cibo in base al reddito, per cui diminuiscono i consumi “sani” a favore del cosiddetto junk food. Giuseppe De Rita ha così commentato: “Si rinuncia a una bistecca non allo smartphone nuovo. Sono cambiate le priorità”[4]. La creazione continua di bisogni crea tensioni psicologiche e frustrazioni. E fa nascere una nuova povertà, che non è quella reale delle sacche di povertà presenti nei nostri opulenti paesi, né la cosiddetta povertà relativa, di chi stenta ad arrivare alla fine del mese. La nuova povertà è una povertà psicologica: ci si percepisce poveri se non si riescono più a soddisfare le sempre nuove sorgenti di esigenze.

Nella pur estesa e difficile crisi, è più forte la paura di impoverire che l’impoverimento reale, timore avvertito soprattutto dal ceto impiegatizio a reddito fisso, e dai giovani. Tutto ciò si può ben legare a quella che possiamo chiamare una questione di “significati immaginari sociali” colonizzati dai valori dominanti: progresso, universalismo, dominio della natura, razionalità.


E nell’immaterialità del mondo digitale, come nella vita reale, troviamo un consumatore passivo, che cerca emozioni velocemente fruibili. Bjung-Chul Han parla di un capitalismo delle emozioni, in grado di capitalizzare sull’emotività. Lo sanno bene i proprietari dei social media, che offrono gratuitamente spazi e servizi online: svelare se stessi significa anche offrirsi volontariamente a chi lo spazio sociale lo sorveglia e lo sfrutta. Significa accettare informazioni che arrivano in rete senza comprenderle, senza inquadrarle nel contesto razionale, significa, nota Han, perdere interesse per la politica così come è stata finora, e sostituirla con il mugugno e il dileggio, equiparando il politico a un fornitore, di cui ci si lamenta perché non soddisfa. Così il cittadino, questo vocabolo che volto al plurale diventa una simbolica rappresentanza della cosiddetta democrazia dal basso, ha creato una parità annullando vecchie disparità (classi, comunità, servi e padroni).

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Fonte: Filosofia in movimento



Autore: redazione Filosofia in movimento



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Articolo tratto interamente da 
Filosofia in movimento


6 commenti:

  1. Scenario devastante, ma verificabile con mano. Io non sono ottimista, ma alla mia età (quasi 59) si aspira a pochi step decisivi: salute, pensione, serenità.
    Ammetto che per i miei nipoti la vedo tosta. Tostissima..

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  2. Basta pensare con la propria testa per non conformarsi alla maggioranza, è una pratica difficile ma con un po' di sforzo ci si può riuscire.
    Buon fine settimana!

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