Articolo da Open Migration
Le persone sbarcano nell'ultimo lembo di terra europea, in pieno mar Libico, tra Creta a Tobruk: nel silenzio e nel buio. Ce ne parla Lidia Ginestra Giuffrida.
S’è
da poco fatto buio intorno alla casa di Gelly Kalinikou, ex sindaca di
Gavdos, quando un uomo arriva dalla montagna, lungo il percorso che
scende fino alla spiaggia di Tripiti. “Chiedeva aiuto e parlava di una
donna e un bambino che non riuscivano più a camminare”, racconta la
donna, “sono scesa con lui portando cibo e acqua e ho trovato i
naufraghi in mezzo al buio, ma non ho mai trovato la donna e il
bambino”. È così che le persone sbarcano nell’ultimo lembo di terra
europea, in pieno mar Libico, tra Creta a Tobruk: nel silenzio e nel
buio.
Una
decina di barconi abbandonati lungo la riva, copertoni sgonfi usati
come salvagente, vestiti, scarpe, documenti, una cassetta di datteri e
la scritta “Maya tamam” – per indicare che l’acqua è potabile – sono
sparsi tra i sassi del terreno desertico. I resti della traversata sono
l’unica testimonianza dell’arrivo dei migranti in quella che in molti
definiscono la “nuova Lampedusa”.
In
questo scoglio in mezzo al mare, che conta poco più di 40 abitanti,
solo a luglio sono sbarcati tre volte i suoi residenti, tutti partiti
dalla Cirenaica.
Creta
ha registrato oltre 9.000 arrivi dall’inizio dell’anno, niente a che
vedere con i numeri ben più alti che l’isola ha visto in precedenza, ma
per il primo ministro Kyriakos Mitsotakis queste cifre sono bastate a
giustificare lo “stato di emergenza”.
Dieci
anni fa la Grecia era il centro della cosiddetta “crisi dei rifugiati”,
con centinaia di migliaia di persone in transito verso l’Europa
centrale e settentrionale. Oggi i numeri sono lontani da quelli del
2015, ma bastano poche migliaia di arrivi su isole periferiche come
Gavdos e Creta per spingere Atene a bloccare in “via emergenziale” la
possibilità di fare richiesta d’asilo. Nel 2015, infatti, la Grecia
registrò oltre 800.000 sbarchi, la maggior parte di gente scappava dalla
Siria attraverso il Mar Egeo dalla Turchia, a causa della guerra civile
e in seguito all’avanzata del sedicente Stato Islamico che prese il
controllo di gran parte della Siria centrale e orientale tra il 2013 e
il 2015. Successivamente, gli arrivi sono diminuiti significativamente,
attestandosi a circa 30.000 nel 2017 e 2018, a seguito dell’accordo tra
l’Unione Europea e la Turchia. Nel 2024, gli sbarchi sono stati circa
60.000, con un aumento significativo rispetto ai 48.000 del 2023. Solo
nella prima settimana di luglio 2025 gli sbarchi a Creta sono stati
quasi duemila, con un aumento del 350% rispetto allo stesso periodo
dell’anno precedente. Ma sono numeri che restano comunque ben lontani
dal picco del 2015.
Il
governo di Kyriakos Mitsotakis, tuttavia, ha imboccato da tempo la
strada della gestione securitaria con il rafforzamento dei
pattugliamenti, la sospensione delle domande d’asilo per tre mesi, il
coinvolgimento di Frontex e la collaborazione assidua con la cosiddetta
Guardia Costiera Libica. Una linea che marca la distanza dall’approccio,
pur caotico, di dieci anni fa, quando le istituzioni elleniche furono
costrette ad adattarsi a flussi che apparivano ingestibili.
Oggi
il messaggio è preventivo, volto a scoraggiare gli sbarchi, limitare la
permanenza delle persone migranti nelle isole, accentrare i
trasferimenti nei centri di accoglienza di Creta o sulla terraferma. Si
tratta di una politica pensata più per mandare segnali interni ed
europei che per rispondere a una reale emergenza numerica, anche perchè
niente può fermare i flussi di persone in movimento.
Se nel 2015 Atene era un Paese schiacciato dal peso di un flusso epocale, oggi la Grecia si presenta come bastione dell’Europa fortificata. Ma sulle piccole isole, dove i pescatori e i residenti parlano di impreparazione e disagio, la distanza tra la retorica securitaria e la realtà quotidiana rimane evidente.
La
misura presa dal governo ellenico, di fatto, ha cancellato ogni
percorso legale: nessuno dei migranti arrivati nel Paese dopo luglio ha
potuto avviare una richiesta di protezione internazionale. Ufficialmente
queste persone non esistono, né per la Grecia né per l’Unione europea.
A
fine Agosto centinaia di profughi approdati in Grecia si trovano
intrappolati in un limbo senza diritti. Arrivano dall’Egitto, dalla
Siria, dal Pakistan, dal Bangladesh e, sempre più spesso, dal Sudan. A
Creta la gestione è affidata a strutture improvvisate, come il capannone
espositivo di Chania, oggi trasformato in centro di detenzione
informale. Nella stessa città dove sempre ad agosto 2025, ufficiali
della Guardia costiera libica fedeli al maresciallo Khalifa Haftar, sono
stati allenati dalla Guardia Costiera Ellenica “per rafforzare la
cooperazione con la Libia orientale nella gestione dei flussi migratori
verso le isole del sud, in particolare Gavdos e Creta”.
Nel centro per migranti di Chania, di fatto divenuto una prigione, non si trovano mediatori, né operatori della Croce Rossa, né rappresentanti dell’UNHCR o di altre agenzie internazionali: soltanto una decina di uomini della Guardia costiera, armati e incaricati di sorvegliare e che cacciano i giornalisti. Secondo fonti locali, tra di loro ci sarebbero anche alcuni degli stessi ufficiali coinvolti nell’inchiesta sul naufragio di Pylos del 2024. La portavoce della Guardia Costiera Ellenica in un’intervista esclusiva condotta con chi scrive ha dichiarato che “non è sua materia”, né l’addestramento della guardia costiera libica da parte di quella ellenica, né cosa facciano gli ufficiali indagati per il naufragio di Pylos.
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Fonte: Open Migration
Autore: Lidia Ginestra Giuffrida
Licenza: 
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Articolo tratto interamente da Open Migration







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