giovedì 31 luglio 2025
Voglia di vacanze
La disumanità normalizzata
Articolo da Global Voices
Due episodi avvenuti la scorsa settimana testimoniano alcuni dei più strazianti crimini di guerra del nostro tempo – eppure, a livello globale, sono stati a malapena riportati dai notiziari. In un mondo intorpidito dalla normalizzazione della sofferenza [en, come tutti i link successivi, salvo diversa indicazione] e dall'impunità a Gaza, anche gli eventi che dovrebbero suscitare indignazione e richieste di responsabilità sono accolti per lo più con indifferenza.
Ci è stato “ordinato” di sparare a quei richiedenti aiuto affamati
Haaretz, il 24 giugno, ha pubblicato un articolo in cui si riportano le testimonianze di soldati israeliani che ammettono di aver ricevuto l'ordine esplicito di aprire il fuoco sui palestinesi che cercavano disperatamente di raggiungere i camion degli aiuti a Gaza, descritta come un “campo di sterminio”.
Secondo l'inchiesta i soldati di diverse unità hanno ammesso di aver ricevuto l'ordine di sparare a chiunque si avvicinasse ai convogli umanitari, a prescindere dal fatto che rappresentasse una minaccia concreta.
Un riservista in servizio a Gaza l'ha descritta come uno scenario anarchico, a conferma di ciò che i movimenti per i diritti umani avevano già denunciato: “Gaza non interessa più a nessuno, la perdita di vite umane non significa nulla”.
Un altro ufficiale: “È stato un gesto privo di senso, sono stati uccisi per niente. L'atto di uccidere innocenti è stato normalizzato”.
Ancora un altro soldato spiega: “Queste aree sono luoghi in cui i Palestinesi sono autorizzati a stare, siamo noi che ci siamo spinti oltre e abbiamo deciso che (loro) ci mettevano in pericolo”.
“Quindi per un imprenditore che vuole guadagnare altri 5000 shekel e demolire una casa è accettabile uccidere gente in cerca di cibo” aggiunge.
Queste agghiaccianti confessioni si inseriscono nel contesto di ripetuti attacchi alle folle radunate intorno agli scarsi aiuti umanitari. Da quando, all'inizio di quest'anno, Israele ha imposto un nuovo sistema di distribuzione degli aiuti, pesantemente militarizzato, nell'ambito della cosiddetta Gaza Humanitarian Foundation — con i convogli umanitari che entrano sotto la scorta dell'esercito israeliano e spesso vengono scaricati in aree a caso — il fenomeno dei “massacri dei richiedenti aiuto” è diventato una truce realtà quotidiana.
Dall'inizio di giugno, in questi massacri, per mano di Israele sono stati uccisi oltre 743 Palestinesi e 4891 sono stati feriti, mentre più di 170 organizzazioni non governative hanno chiesto lo stop di questo piano mortale.
Antidolorifici che creano dipendenza rinvenuti nella farina distribuita agli abitanti di Gaza affamati
La seconda storia è altrettanto sconcertante. Il 27 giugno l'Ufficio governativo per i media di Gaza ha comunicato che le analisi di laboratorio sui sacchi di farina consegnati tramite le spedizioni di aiuti internazionali attraverso il GHF hanno rilevato tracce di ossicodone, un oppioide con un elevato potere di assuefazione.
Le autorità sanitarie locali hanno evidenziato che la scoperta di tali sostanze nei prodotti alimentari di prima necessità potrebbe avere conseguenze devastanti per la salute di una popolazione già indebolita dalla malnutrizione e dai traumi. I funzionari hanno dichiarato che sono in corso ulteriori test per determinare se la contaminazione sia stata accidentale o intenzionale. Sebbene non siano ancora state effettuate verifiche indipendenti la sola ipotesi sottolinea il clima di profonda sfiducia e paura in cui versano gli aiuti.
I principali media non hanno approfondito a fondo su queste informazioni e le agenzie umanitarie non hanno ancora rilasciato dichiarazioni conclusive. L'accaduto, tuttavia, si aggiunge agli strati di sofferenza imposti a una popolazione assediata che sta già lottando per sopravvivere sotto un blocco aereo, terrestre e marittimo.

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Un accordo di vassallaggio
Articolo da Me-Ti
L’accordo concluso qualche giorno prima tra Stati Uniti e Giappone lo aveva anticipato: le trattative tra gli USA e i suoi principali partner politici e commerciali sono volte a rafforzare il dominio politico, economico, commerciale e militare degli USA a livello globale e rappresentano quindi una vera e propria controffensiva dell’imperialismo statunitense nel nuovo ordine mondiale.
La capitolazione di Ursula von der Leyen di fronte alle misure imposte dal presidente USA Donald Trump è l’immagine di un progetto europeo senza prospettiva, incapace di mettere in discussione il proprio modello di sviluppo economico e commerciale che si basa sull’export a detrimento della domanda interna e che vuole semplicemente continuare con il business as usual all’origine della stagnazione del continente europeo. In definitiva, si tratta di una classe dominante incapace di sviluppare un’autonomia strategica – politica, economica, militare – e che scarica sulla classe lavoratrice i costi della crisi in cui il continente è precipitato.
Colpiti saranno alcuni settori e aziende, quelli orientati verso l’export che avranno più difficoltà a vendere sul mercato USA, e soprattutto quelle che producono per il mercato interno e che si vedono tagliati, ancora una volta, importanti investimenti economici e una concorrenza USA ancora più feroce. Ma a pagare il conto finale del protezionismo statunitense sarà soprattutto la classe lavoratrice nel suo insieme.
Una vittoria totale del capitale statunitense
Per tutto il fine settimana passato, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen aveva negoziato con un unico obiettivo in mente: evitare il 30% di dazi doganali che Washington aveva minacciato di introdurre sui prodotti europei in caso di mancato accordo entro il 1° agosto 2025. Considerata questa minaccia, von der Leyen si è detta soddisfatta dell’accordo raggiunto: ai prodotti europei sarà applicato un dazio doganale all’entrata sul territorio USA del “solo” il 15%. Ma questa (esagerata) soddisfazione europea passa sotto silenzio tre elementi fondamentali dell’accordo.
Primo, i dazi imposti ai prodotti europei sono del tutto asimmetrici perché non vengono accompagnati da tariffe doganali sui prodotti USA che continueranno a competere senza restrizioni sul mercato europeo. I dazi al 15% sono quindi di una vera e propria misura coercitiva unilaterale e non un accordo tra uguali. A dimostrazione che USA e UE non sono veri partner, ma che l’UE è subordinata agli USA.
Secondo, se a inizio aprile Trump parlava ancora di dazi del 10%, il risultato raggiunto il 27 luglio è decisamente a perdere. Un anno fa la media dei dazi sui prodotti europei negli USA era inferiore al 5%. A partire dal 1° agosto quindi i prodotti europei subiranno un aumento del prezzo notevole sul mercato statunitense. Se i dazi sulle automobili europee verranno diminuiti dal 25 al 15%, questa diminuzione non vale per i prodotti farmaceutici e metallurgici. L’acciaio e l’alluminio provenienti dal continente europeo rimarranno soggetti agli attuali dazi del 50%, cosa che praticamente costituisce una chiusura del mercato statunitense a questi prodotti europei.
Terzo – e forse è l’elemento più importante – l’accordo prevede dei forti impegni futuri da parte dell’UE negli USA.
1. Il continente europeo ha accettato di investire ulteriori 600 miliardi di dollari nell’economia USA, cioè tre volte il surplus commerciale realizzato dall’Europa negli USA nel 2024. Invece di investire nella propria economia, l’Europa preferisce farlo negli USA, malgrado il sottoinvestimento del capitale sia diventato un problema cronico dell’Eurozona, cosa che ha prodotto la debole crescita economica europea e un indebolimento della domanda interna.Tra l’altro, questo è il punto più oscuro di tutto l’accordo, perché i governi non potranno obbligare le aziende private europee a investire negli USA. Una delle ipotesi più plausibili è che a investire negli USA saranno dunque le grandi industrie, tipo quelle della difesa (in Italia Leonardo), che, pur essendo private, hanno il pacchetto di maggioranza relativa in mano al Tesoro o ad altri enti pubblici e quindi possono essere “istruite” in tale direzione. Dunque, investimenti di 600 miliardi che, probabilmente, verranno concentrati in settori chiave per supportare il dominio statunitense.
2. A questi investimenti economici si aggiungono 750 miliardi di dollari di spese in “prodotti energetici” statunitensi, cioè principalmente prodotti fossili come petrolio, gas di scisto e gas naturale liquefatto (GNL). Si tratta di un definitivo addio all’energia a basso costo: il GNL statunitense costa circa sei volte il prezzo del gas russo e a partire dal 2022, dopo l’invasione dell’Ucraina, lo staccamento dal gas russo ha costituito un elemento centrale della deindustrializzazione europea, soprattutto in Germania, fortemente dipendente dal gas russo. Va da sé che un costo così tanto più alto per le imprese europee ne comporterà una minore competitività futura, a favore di imprese concorrenti di altre aree (USA e non solo). Ma non solo aumento dei costi: insieme allo spostamento di ingenti capitali negli USA, questo elemento porterà anche a una diminuzione degli investimenti nelle energie rinnovabili, con un settore con forte potenziale di sviluppo e crescita, nonché necessario di fronte alla crisi climatica, che perderà terreno nei confronti di altri player mondiali, Cina in primis (che rimane il primo obiettivo degli USA).
3. Investimenti economici, prodotti energetici e, infine, “ingenti quantità” (cit. Trump) di armi statunitensi. Tutta la storia del rafforzamento della “sovranità europea” che ci hanno raccontato mentre annunciavano la messa a disposizioni di 800 miliardi di Euro all’industria europea con il programma “ReArm Europe” crolla come una casa di carta di fronte agli impegni presi dall’UE nell’accordo con gli USA, che confermano la dipendenza dell’Europa dalle forniture di armi statunitensi. Quindi, il piano di riarmo dei Paesi europei sosterrà la crescita economica USA, ben inteso tramite i tagli al welfare sociale (austerity) per le classi popolari.
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Fonte: Me-Ti
Articolo tratto interamente da Me-Ti
Il potere di acquisto sempre più giù
Articolo da La Fionda
Anni fa nell’immaginario collettivo si è insinuata l’idea che molti, e a lungo, avessero vissuto al di sopra delle loro reali possibilità e che gli eccessi d’una generazione si sarebbero inevitabilmente ripercossi su quelle successive. Detto in termini spiccioli, a determinare i problemi dell’oggi sarebbero le pensioni anticipate del passato (cioè la possibilità di andare in pensione prima della norma) o i livelli contrattuali degli anni ’60 e ’70, indicati addirittura come causa ultima dei bassi salari odierni.
A noi questa narrazione non hai mai convinto: nella sua genericità, risulta interamente costruita su luoghi comuni. Chi se ne fa portatore non ama comunicare dati né sul numero degli occupati e dei pensionati, né statistiche aggiornate sul rapporto tra pensione percepita e gli ultimi stipendi in età lavorativa, sugli anni versati e sull’effettivo peso dei contributi. Così come non vi sono analisi di parte governativa che mostrino come, a fronte dell’aumento degli anni lavorati, l’assegno previdenziale perde potere di acquisto.
Ma se veramente si vuole andare alla radice dei problemi odierni, non rimane che proporre esempi concreti. Ad esempio, i part-time involontari: in Italia, il loro numero risulta di gran lunga superiore rispetto al passato. Ed è la stessa stampa ufficiale, di norma propensa a scaricare tutte le responsabilità sulla forza lavoro, a riconoscere che “più della metà dei 3 milioni di lavoratori e lavoratrici part-time, per l’esattezza il 56,2%”, non ha scelto questo specifico rapporto di lavoro. È il sistema produttivo italiano a preferire i contratti di poche ore al tempo pieno, in questo senso volgendo a proprio favore – e anzi alimentando – le disparità di genere che ancor oggi distinguono il Bel Paese. Ora, nel tempo, contratti di questo tipo cosa possono determinare? È evidente: pensioni da fame. Certo, nel caso in questione il problema viene riconosciuto dalle forze politiche di finta sinistra, che sin qui hanno promosso il sistema della precarietà, ma il punto è che certe politiche spregiudicate – e l’attitudine rapace degli imprenditori nostrani – hanno generato una contraddizione con il modo di raccontarsi del nostro Paese. Che cerca in tutti i modi di accreditarsi come avanzato, nonché capace di garantire l’emancipazione femminile in ogni ambito, salvo poi costringere moltissime donne a una condizione subordinata nel mondo del lavoro.
Ma torniamo alla questione previdenziale. Il sistema volto a calcolare l’importo pensionistico è cambiato e l’età media in cui s’inizia a percepire la pensione si è notevolmente alzata: è sufficiente dare un’occhiata al rapporto annuale INPS per comprenderlo.
Per quanto riguarda le pensioni anticipate di qualche anno or sono, va detto che sono state un’eccezione di cui non va sopravvalutato l’impatto. A essere politicamente determinante è stato un incrocio tra due spinte: una sorta di mossa elettorale, dovuta alla classe politica, e la spinta aziendale al ricambio generazionale. Oggi i nuovi posti di lavoro sono pagati meno e, soprattutto nei primi anni, hanno inquadramenti contrattuali peggiori che in passato.
In un prossimo futuro, “l’uscita dal lavoro potrebbe avvenire dopo tredici mensilità in più rispetto alla soglia attuale: quindi, a 68 anni e un mese invece che a 67”. Mentre, per accedere al pensionamento anticipato, sono richiesti ben 41 anni di contributi. Ai nostri genitori, per uscire dal mondo del lavoro con un assegno decente, ne bastavano 35.
Eppure l’incipit del Rapporto annuale Inps appena uscito parla di un aumento dei lavoratori assicurati: “Nel 2024 gli assicurati INPS (vale a dire l’insieme di tutti i lavoratori, dipendenti e indipendenti, obbligati ai versamenti previdenziali) hanno superato i 27 milioni, evidenziando un incremento di circa 400 mila unità rispetto al 2023 (+1,5%) e di circa 1,5 milioni rispetto al 2019 (+5,9%)”.
Aumentando i lavoratori, dovrebbe aumentare anche il gettito contributivo, ossia il totale dei versamenti contributivi effettuati, eppure: “Sostanzialmente stabile, invece, il numero medio di settimane lavorate (circa 43 sia nel 2019 che negli ultimi due anni)”. È probabile, allora, che stia semplicemente aumentando il numero di lavoratori precari e di part-time involontari. Chiaro, dunque, che vi sia una responsabilità imprenditoriale dietro il buco di bilancio previdenziale.
https://www.inps.it/it/it/dati-e-bilanci/rapporti-annuali/xxiv-rapporto-annuale.html
A ben vedere, dunque, l’età previdenziale non si è alzata perché prima si andava in pensione troppo presto. Il punto è che a un certo punto della storia europea le risorse si sono spostate dai redditi al capitale, dal welfare universale alla previdenza integrativa. In questo quadro non ha un carattere neutro l’attività svolta dalla Ragioneria Generale dello Stato. Essa, utilizzando i dati sulla speranza di vita, cerca di far passare per normali, anzi naturali, i continui aumenti dell’età pensionabile. Peccato che quando la speranza di vita decresce, però, gli adeguamenti per il pensionamento vengano puntualmente sospesi con norme ad hoc.
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Fonte: La Fionda
Autore: Federico Giusti e Emiliano Gentili
Licenza: 
Quest' opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale 3.0 Italia.
Articolo tratto interamente da La Fionda
La nostalgia
"La nostalgia è quando vuoi che le cose rimangano le stesse. Conosco così tante persone che stanno nello stesso posto. E penso, mio Dio, guardale! Sono morti prima di morire. È un rischio terribile. Vivere è rischiare."
Jeanne Moreau
Finché le cose rimangono esclusivamente nel nostro intelletto...
"Finché le cose rimangono esclusivamente nel nostro intelletto, sono nostre opinioni, sono nozioni che possono esser vere o false, accettate o contraddette. Esse acquisiscono consistenza soltanto legandosi agli enti esterni. Questo legame si realizza attraverso una serie ininterrotta di esperienze, oppure attraverso una catena ininterrotta di ragionamenti, la quale dipende in parte dall'osservazione e in parte dall'esperienza."
Denis Diderot
Il vero amore non muore mai
"Il vero amore non muore mai. Non conosce stagioni: le ore, i giorni, gli anni sono soltanto frammenti di stelle spente, brandelli di tempo. Il cuore è come un uccello in grado di vedere il cielo mentre vola silenziosamente nell'immensità del deserto. Migra in quella solitudine per andare incontro a chi ha bisogno d'amore."
Romano Battaglia
Per ogni fine c’è un nuovo inizio
"È una follia odiare tutte le rose perché una spina ti ha punto, abbandonare tutti i sogni perché uno di loro non si è realizzato, rinunciare a tutti i tentativi perché uno è fallito. È una follia condannare tutte le amicizie perché una ti ha tradito, non credere in nessun amore solo perché uno di loro è stato infedele, buttate via tutte le possibilità di essere felici solo perché qualcosa non è andato per il verso giusto. Ci sarà sempre un'altra opportunità, un'altra amicizia, un altro amore, una nuova forza. Per ogni fine c'è un nuovo inizio."
Tratto da | Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry
Ho sempre avuto una grande facoltà di far ridere...
"Ho sempre avuto una grande facoltà di far ridere. Anche da piccola al tavolo da pranzo ero istintivamente pungente. Negli anni ho saputo sfruttare il mio senso dell'ironia. E preferisco essere un'umorista piuttosto che una piagnona."
Franca Valeri
Photo credit Gorup de Besanez, CC BY-SA 4.0, da Wikimedia Commons
Ogni tempo ha il suo fascismo
"Ogni tempo ha il suo fascismo: se ne notano i segni premonitori dovunque la concentrazione di potere nega al cittadino la possibilità e la capacità di esprimere ed attuare la sua volontà. A questo si arriva in molti modi, non necessariamente col terrore dell'intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l'informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l'ordine, ed in cui la sicurezza dei pochi privilegiati riposava sul lavoro forzato e sul silenzio forzato dei molti."
mercoledì 30 luglio 2025
Ritmi retrò (viaggio nella musica degli anni 70, 80 e 90): Summertime di Janis Joplin

Angolo curato e gestito da Mary B.
Summertime, scritta da George Gershwin con testo di DuBose Heyward nel 1934, è una di quelle canzoni che ti rimane addosso. Ma quando Janis Joplin la canta… cambia pelle. Non è più solo un brano jazz, è un’esplosione di anima.
La voce di Janis è graffiante, viscerale, cruda. Quando dice “and the livin’ is easy” sembra quasi urlare il contrario: è estate, sì, ma anche inquietudine, nostalgia, voglia di fuggire. Lei non interpreta: vive quella canzone, la sbriciola e la ricompone secondo il suo dolore e la sua libertà.
Il risultato è un blues sporco, caldo, potente. Ti entra sotto pelle e ti fa vibrare. È un’estate intensa, fatta di sogni e cicatrici.
Un classico rivisitato con la forza di chi non ha paura di mostrare le proprie crepe.
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I maggiori trionfi della propaganda
"I maggiori trionfi della propaganda sono stati compiuti non facendo qualcosa, ma astenendosi dal farlo. Importante è la verità, ma ancor più importante, da un punto di vista pratico, è il silenzio sulla verità."
Aldous Huxley
Lo scirocco
"Lo scirocco è uno dei momenti più belli che possano essere concessi all'uomo, in quanto l'incapacità di movimento in quei giorni ti porta a stare immobile a contemplare una pietra per tre ore, prima che arrivi un venticello. Lo scirocco ti dà questa possibilità di contemplazione".
Andrea Camilleri
Negli ultimi anni...
"Negli ultimi anni sono stata impegnata a fare un sacco di lavoro d'archivio, a ridisegnare il nostro sito web, a mettere insieme un libro di testi. Sono molto ansiosa di iniziare a lavorare a un nuovo album quando avrò finito questo. Ho molte idee e non vedo l'ora di tornare in quello spazio creativo; è passato molto tempo."
Kate Bush
Photo credit Stephen Luff from West Sussex, CC BY 2.0, da Wikimedia Commons
Givat Kobi: il belvedere per chi ha sepolto l’anima
Articolo da Comune-info
La collina è lì da sempre. Una lingua di terra tra il cielo e il fuoco. La chiamano Givat Kobi, e in questi mesi è diventata famosa. Non per la vista, ma per quello che si guarda. Siamo a Sderot, sud di Israele, a pochi chilometri da Gaza. In fondo, oltre la linea dell’orizzonte, si alza il fumo dei bombardamenti. Ogni botto, ogni scintilla, ogni colonna grigia che si apre nel cielo corrisponde a una bomba che cade. Lontano abbastanza da non sentire le urla, ma vicino abbastanza da vederne lo spettacolo.
Yedidya Epstein, giornalista ultraortodosso, ha pubblicato su X un video: ragazzi, famiglie, auto in doppia fila. Sedie pieghevoli, telefoni puntati, risate. Qualcuno mangia qualcosa. Qualcuno scatta selfie. Due cugine di sedici e diciassette anni sono venute perché lo zio le ha rimproverate: “Non siete mai state al cinema di Sderot”. Un ragazzo ha portato con sé i figli della compagna: cinque e otto anni. “Voglio fargli vedere cosa resta di Gaza”, dice.
La guerra come intrattenimento
C’è un punto preciso in cui il dolore dell’altro smette di esistere. Non per assenza, ma per distanza. È il momento nel quale l’altro diventa solo sfondo, rumore, nemico, punizione. E in quel momento, qualcosa si spezza. Non solo fuori, ma dentro.
Guardare le bombe che cadono su Gaza come si guarda un tramonto. Fotografarle. Postarle. Commentarle. Ridere. Tutto questo non è solo indifferenza. È qualcosa di più profondo e più oscuro: la perdita dello sguardo che riconosce, che trattiene, che si ferma. È disumanizzazione.
Non è la prima volta. Già nel 2014, durante un’altra offensiva militare, si vedevano famiglie sedute su altre colline, con bibite e snack, ad applaudire le esplosioni. Succedeva anche altrove, nella storia. Succede ancora oggi. Quando si smette di vedere l’altro come essere umano, ogni atto diventa possibile. Anche ridere mentre qualcuno muore.
Chi non ha volto
La disumanizzazione accade spesso in silenzio. Un passo alla volta. Una parola. Un’immagine. Una scelta. L’altro comincia a non avere più un volto. È un numero. È “terrorista”, “barbaro”, “scudo umano”. È un problema da eliminare, non una vita da salvare.
In guerra, questa logica prende il sopravvento. Si spegne l’empatia e si accende il calcolo. La morte non pesa più. Anzi, diventa un risultato. Un dato. Un bersaglio centrato. Anche i bambini diventano strumento di propaganda: “Gli faccio vedere cosa resta di Gaza”, dice quel ragazzo con i due piccoli. Come se la guerra fosse una gita. Come se la violenza potesse essere insegnata.
Ma non è solo questione di Israele o Palestina. È lo stesso meccanismo che ha permesso ai soldati nazisti di ridere nei campi. Che fa accorrere i curiosi alle frontiere per “vedere i migranti”. Che diffonde sui social le immagini dei cadaveri con ironia o indifferenza.
Il male, scriveva Hannah Arendt, può essere banale. Ma prima ancora, è distante. Ciò che è lontano smette di farci male. O peggio: smette di riguardarci.
Il carburante della guerra
La disumanizzazione è il carburante puro di ogni conflitto. Perché se l’altro non è umano, allora non c’è colpa. Non c’è dubbio. Non c’è pietà. E se l’altro non soffre come me, allora non c’è alcun motivo per fermarsi. Così la guerra diventa eterna. Si autoalimenta. Ogni morte giustifica la prossima. Ogni bomba chiama vendetta. Ogni colpa annulla la propria.
Judith Butler ci insegna che alcune vite vengono raccontate, altre semplicemente cancellate. Alcune sono visibili, piangibili, degne di lutto. Altre, no. Giorgio Agamben ci mostra che esistono luoghi e momenti in cui si può morire senza che nessuno se ne assuma la responsabilità: spazi in cui si vive come nuda vita, corpi ridotti a esistenza biologica, fuori dal diritto. David Livingstone Smith ci avverte: ogni guerra inizia quando smettiamo di vedere l’altro come umano. Quando lo trasformiamo in bersaglio, in minaccia, in spettacolo.
Come da quella collina, a Givat Kobi.
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Fonte: Comune-info
Autore: Emilia De Rienzo

Quest' opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale 3.0 Italia.
Articolo tratto interamente da Comune-info
I leader occidentali fanno false promesse alla Palestina
Articolo da Socialist Worker
Questo articolo è stato tradotto automaticamente. La traduzione rende il senso dell’articolo, tuttavia consigliamo di leggere il testo originale su Socialist Worker
I leader occidentali sono sotto pressione affinché riconoscano uno stato palestinese, ma ciò non offre una vera soluzione per i palestinesi.
Gli orrori scatenati da Israele a Gaza hanno messo in difficoltà i leader occidentali, e il movimento globale per la Palestina non fa che aumentare la pressione.
La scorsa settimana, il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato che la Francia avrebbe riconosciuto formalmente uno Stato palestinese. Il giorno successivo, oltre un terzo dei parlamentari britannici ha scritto a Keir Starmer chiedendogli di fare altrettanto.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che la decisione della Francia "premia il terrorismo" e crea "una rampa di lancio per annientare Israele". Starmer ha risposto richiamando il suo governo per una riunione di emergenza su Gaza. I funzionari governativi ora affermano che il riconoscimento è una questione di "quando, non di se".
Per 22 mesi, gli stati britannico e francese non si sono limitati a rimanere in silenzio di fronte al genocidio israeliano. Hanno partecipato attivamente, con parole, azioni e armi. L'affermazione di Starmer che Israele ha il diritto di far morire di fame i bambini rimarrà per sempre impressa nella memoria del movimento.
Cosa c'è dietro questo cambiamento?
Questa mossa non deriva da un risveglio morale. Piuttosto, i leader occidentali sono alle prese con una crisi di legittimità.
Mentre Israele commette ogni giorno nuove atrocità – fame, omicidi, annessioni – le sue pretese di “umanitarismo” restano appese a un filo.
L'immagine di Israele è da tempo quella di una "democrazia liberale" che rispecchia l'Occidente. Ma gli orrori del genocidio fanno sì che la gente stia scoprendo il falso impegno dell'Occidente verso l'"umanitarismo".
Ciò ha spinto Starmer e Macron, e alcuni esponenti di Israele, a cercare di riconquistare legittimità.
Questa dinamica ha spinto il ministro degli esteri David Lammy a pronunciare a maggio parole di critica insipide, ma pur sempre critiche, nei confronti del regime barbaro di Israele.
Naturalmente, il sostegno britannico e francese a Israele deriva dagli interessi imperialisti in Medio Oriente.
La necessità per Starmer di schierarsi con Donald Trump, che ha incontrato questa settimana, su questo punto significa che si trova su un filo sottile. Riconoscere la Palestina andrebbe contro le richieste di un alleato minore dell'imperialismo statunitense.
Per Macron, la dinamica è diversa. Sta cercando di ricostruire i legami economici con il Medio Oriente, in particolare con Egitto e Siria. Riconoscere la Palestina rende più facile questo progetto imperialista, alleviando parte della pressione esercitata da Trump.
Le pressioni potrebbero andare nella direzione opposta. Con il riconoscimento francese, tre dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite riconoscerebbero la Palestina.
Ciò potrebbe aumentare ulteriormente la pressione su Starmer affinché rompa con Trump e l'imperialismo statunitense su questa questione.
Ma riconoscere uno Stato palestinese, accanto a Israele, è in definitiva una soluzione farsa. Una "soluzione" a due Stati congela l'autodeterminazione palestinese. Storicamente, non è stata altro che una falsa promessa.
È qualcosa dietro cui i leader possono nascondersi, pur mantenendo lo status quo del terrore imperialista e israeliano in Medio Oriente.
Il movimento ha spinto i leader a questo punto. Le crepe si stanno manifestando e deve chiedere di più. Finché Israele non sarà riconosciuto per quello che è – uno stato genocida e terroristico senza diritto di esistere – il riconoscimento palestinese non varrà la carta su cui è scritto.
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Fonte: Socialist Worker
Autore: Arthur Townend
Un colono israeliano uccide un attivista palestinese che aveva contribuito a girare il documentario "No Other Land" in Cisgiordania
Articolo da Argia
Questo articolo è stato tradotto automaticamente. La traduzione rende il senso dell’articolo, tuttavia consigliamo di leggere il testo originale su Argia
Il colono Yinon Levi ha ucciso l'attivista Odeh Hadalin nella Cisgiordania meridionale. Hadalin ha contribuito alle riprese del documentario "No Other Land", che ha vinto l'Oscar come miglior documentario a marzo. L'assassino del colono era nella lista delle sanzioni statunitensi per l'occupazione dei territori palestinesi, ma Trump ha revocato la lista e le sanzioni.
"Lunedì, il colono Yinon Levi ha scatenato una sparatoria a Um al-Kheir, nella Cisgiordania meridionale, uccidendo Odeh Hadal", ha riferito sui social media Yuval Abraham, regista del popolare documentario " No Other Land" . Il colono assassino era noto per le sue precedenti condanne per aggressioni ai danni di palestinesi. Il regista ha anche pubblicato un video dell'attacco mortale.
Breaking The Silence (un'organizzazione di veterani israeliani che denuncia le conseguenze dell'occupazione) ha denunciato l'omicidio sui social media: "Sono stati uccisi dai coloni in un attacco a un piccolo villaggio. Tra loro c'era il vile Yinon Levy, che terrorizza i palestinesi in tutta la regione da anni, e un uomo che ha ricevuto numerose sanzioni internazionali". Nella dichiarazione, hanno ricordato l'attivismo di Odeh Hadalin e l'organizzazione ha denunciato che il villaggio di Um al-Kheir è stato vittima di continui attacchi da parte dei coloni. "Siamo indignati. Il coraggioso attivista, padre di tre figli, è appena stato ucciso. Odeh è l'ultima vittima di un sistema oppressivo che mira a rendere la vita impossibile ai palestinesi".
Dal 7 ottobre 2023 a oggi, l'esercito e i coloni israeliani hanno ucciso 984 palestinesi, di cui circa 200 minorenni, in Cisgiordania, secondo i dati dell'Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari.
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Fonte: Argia
Autore: Jon Fernández González

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Articolo tratto interamente da Argia
Sisma di magnitudo 8.8 a allerta tsunami nella penisola di Kamchatka (Russia), uno dei terremoti più forti mai registrati

Articolo da Blog INGVterremoti
Un terremoto di magnitudo Mwpd 8.6 (Mw 8.8 – USGS) è stato localizzato dalla Sala Operativa INGV-Roma alle ore 01:24 italiane del 30 luglio 2025 (29-07-2025 23:24:50 ora UTC e 30-07-2025 11:24:50 ora locale) al largo della costa della Penisola della Kamchatka, Russia.
Questo evento, che si colloca tra i 10 più forti terremoti mai registrati, è avvenuto in una zona di subduzione che ha già prodotto due dei dieci terremoti più forti al mondo, tra questi il terremoto di magnitudo 9.0 nel 1952, molto vicino a quello odierno.
Nei giorni scorsi, il 20 luglio 2025, erano avvenuti altri terremoti molto forti, alcuni di magnitudo tra 6.6 e 6.7 ed uno di magnitudo 7.4 che aveva colpito la stessa area e quasi un anno fa si era verificato un terremoto di magnitudo 7.1.
Terremoti di questa magnitudo si verificano tipicamente nelle zone di subduzione, lungo la faglia megathrust poco profonda che separa due placche tettoniche convergenti. In un terremoto di grande energia (M8,5+), possiamo aspettarci diversi metri, localmente fino a decine di metri, di scorrimento su un tratto di faglia lungo centinaia di chilometri e la rottura potrebbe propagarsi per diversi minuti.
Per molti terremoti di questo tipo il pericolo maggiore è lo tsunami.
Circa dieci minuti dopo il terremoto, il Pacific Tsunami Warning Center ha diramato allerte tsunami per tutti i Paesi che si affacciano sull’Oceano Pacifico (Hawaii, Alaska, Canada, USA costa occidentale, Filippine, Taiwan, Corea del Sud, Indonesia, Nuova Zelanda, Perù, Cile, Ecuador e altri). Le allerte sono state basate sulla stima delle possibili altezze delle onde e sui tempi di arrivo teorici ai siti in cui sono posizionati i mareografi, strumenti che misurano la variazione del livello del mare.
Anche la Japan Meteorological Agency ha diramato l’allerta per le coste del Giappone. Le coste della Russia nelle vicinanze del terremoto sono state colpite da onde di qualche metro. In Giappone sono state disposte diverse evacuazioni preventive, anche a Fukushima, il sito nel quale si era verificato l’incidente nucleare in conseguenza dello tsunami del 2011. Le onde in Giappone sono state intorno ad un metro.
Onde tra 2 e 3 metri hanno colpito le Hawaii, dove lo tsunami è ancora in corso. Mentre scriviamo, lo tsunami sta interessando le coste della California.
Autore: Blog INGVterremoti
Articolo tratto interamente da Blog INGVterremoti
Ho scritto una poesia triste...
"Ho scritto una poesia triste
e bella solo della sua tristezza.
Non viene da te quella tristezza,
ma dai cambiamenti del Tempo,
che ora ci porta speranze
ora ci dà incertezza."
Mário Quintana













