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martedì 21 ottobre 2025

Il petrolio come pretesto: l’imperialismo naviga



Articolo da Altrenotizie

E’ ufficiale il passaggio della Bolivia alla destra e con esso, quasi certamente, del suo litio a disposizione della ricchezza nazionale. Dopo l’Ecuador, divenuto un protettorato USA su base criminale, che ha consegnato la sua significativa quota di petrolio agli USA, sembra ridisegnarsi un quadro favorevole per la sete di risorse latinoamericane che alloggia nelle gole statunitensi e, per molti aspetti, spiega alcune delle vere ragioni che spingono la IV Flotta della US Navy nei Caraibi.

Gli Stati Uniti non sono nei Caraibi per fare la guerra alla droga: se fosse stato così avrebbe dovuto procedere ad alcune migliaia di arresti nei 3500 laboratori di Fentanyl che si trovano in territorio statunitense, allo smantellamento dei cartelli statunitensi e alla chiusura di enti bancari e finanziari che ne riciclano i proventi, molti di questi operanti a Wall Street.

Che la loro presenza militare nei Caraibi abbia contorni di illegittimità e di illegalità, dato che a tutti gli effetti minaccia la libera navigazione anche con attacchi ingiustificati su imbarcazioni civili peschiere, lo ha reso evidente lo stesso Alvin Holsey, l’ormai ex Ammiraglio in capo del Comando Sud (e dunque anche della IV Flotta) dimettendosi proprio in nome del rispetto del codice di navigazione e delle leggi di guerra.

Il rispetto di questi impedirebbe le modalità dell’operazione navale in corso, il cui scopo è solo di minacciare, terrorizzare; prova ne sia che gli ipotetici corrieri della droga non vengono abbordati o bloccati ma gli si spara direttamente, senza peritarsi nemmeno di chi vi sia a bordo, cosa stia facendo e se rappresenta o no un pericolo. L’idea è quella di sparare prima e vedere poi a chi. Si chiama terrorismo di Stato, senza virgolette.

Gli Stati Uniti sono di fronte alle coste del Venezuela con due obiettivi: uno immediato e un altro in prospettiva. Quello immediato è la caduta del governo di Nicolas Maduro; quello più ampio vorrebbe la fine dell’ALBA ovvero Cuba e Nicaragua. Il primo obiettivo propone due opzioni: un attacco diretto cercando un falso casus belli o riuscire, aggressione dopo aggressione, obbligare ad una reazione che possa giustificare l’attacco a Caracas. La guerra psicologica è, per ora. la strada scelta ma le due opzioni non si escludono l’una con l’altra.

Fa parte di questa guerra psicologica l’annuncio dell’ordine impartito alla CIA di promuovere un colpo di Stato in Venezuela, ma non c’è nessuna novità che non sia, appunto, quella di provocare; dall’avvento di Hugo Chavez ad oggi è sempre stato all’ordine del giorno e il fallimento dei tentativi di golpe ai danni del Comandante Chavez e di magnicidio del Presidente Maduro non hanno comunque prodotto un cambio di indirizzo da parte di Langley. L’altro elemento di questa guerra psicologica è appunto l’indirizzo degli attacchi a imbarcazioni a pescatori innocenti, che conferma il comportamento stragista dei suoi militari e dimostra come l’attività delle navi USA sia  configurabile a tutti gli effetti come un blocco navale.

Il petrolio del Venezuela è l’obiettivo politico immediato. Nei suoi confronti non c’è lettura del contesto, ragionamento sugli equilibri, prefigurazione di un assetto valido per tutti gli attori: l’unità di misura con cui gli USA leggono il Venezuela sono solo i barili di petrolio. E’ la più grande riserva al mondo. La fascia dell’Orinoco, un’area di 54mila chilometri quadrati lungo il corso del fiume omonimo, potrebbe contenerne fino a 1300 miliardi di barili secondo le stime più ottimiste, una quantità quasi pari a quella di tutte le risorse di petrolio convenzionale del globo.

Ma già oggi le sue riserve ufficiali ammontano a 303,3 miliardi di barili, collocando Caracas al primo posto nella classifica mondiale secondo l’annuario Bp, una delle fonti statistiche più accreditate nel settore. Gli Stati Uniti, nonostante lo shale oil, sono solo decimi in classifica, con 44,2 miliardi di barili, superati anche da Iran, Iraq, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Russia e Libia e la loro produzione viene in gran parte consumata internamente. Se così non fosse, se non avessero interesse nel prelevare le risorse energetiche e alimentari degli altri per sopravvivere e soggiogare, di esercitare il comando perché incapaci al governo, non manterrebbero le circa 800 basi militari in tutto il mondo.

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Fonte: Altrenotizie

Autore: 
Fabrizio Casari

Licenza: Creative Commons (non specificata la versione

Articolo tratto interamente da Altrenotizie.org 


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