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mercoledì 2 luglio 2025

I rischi del caldo estremo sulla salute dei lavoratori



Articolo da Valori

Intervista ad Alessandro Marinaccio (Inail) sui rischi del caldo estremo per la salute dei lavoratori e le misure di prevenzione possibili 

Le ondate di caldo che stanno colpendo l’Italia in questi giorni non sono solo un disagio, ma un rischio concreto per chi lavora, soprattutto all’aperto o in ambienti non climatizzati. Negli ultimi anni il legame tra cambiamenti climatici e salute pubblica è diventato sempre più evidente, ma resta ancora poco discusso il modo in cui l’aumento delle temperature incide sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Eppure i dati parlano chiaro: gli infortuni correlati al caldo sono in crescita, e colpiscono soprattutto i lavoratori più fragili.

Ne abbiamo parlato con Alessandro Marinaccio, epidemiologo e ricercatore dell’Inail, che coordina il progetto Worklimate, una delle principali esperienze italiane di studio sui rischi climatici in ambito occupazionale.

Negli ultimi tempi si parla molto di cambiamenti climatici e salute. Ma il tema della sicurezza sul lavoro sembra meno presente. È davvero così?

Sì, è una constatazione corretta. Per anni, quando si parlava di salute e cambiamenti climatici, il discorso si concentrava soprattutto sugli effetti sulle fasce più fragili della popolazione – come gli anziani o le persone con patologie croniche – e su eventi estremi come le ondate di caldo. In ambito scientifico esiste una letteratura ormai consolidata che dimostra un incremento della mortalità associata al caldo, per esempio. Ma il legame tra cambiamenti climatici e salute e sicurezza sul lavoro è entrato solo più di recente nel dibattito pubblico e nelle agende istituzionali.

In Italia, abbiamo cominciato a colmare questo vuoto grazie a progetti di ricerca come Worklimate, sviluppato da Inail e Cnr. Abbiamo raccolto e analizzato dati epidemiologici che mostrano in modo chiaro come esista una relazione tra l’aumento delle temperature e l’incremento degli infortuni sul lavoro. Si tratta di evidenze che non solo rafforzano la nostra comprensione del problema, ma contribuiscono anche a far nascere o consolidare politiche e strumenti di prevenzione.

Quando parliamo di infortuni legati al caldo, a cosa ci riferiamo esattamente?

È importante chiarirlo: non ci riferiamo solo ai classici colpi di calore, che sono sicuramente eventi gravi e immediatamente riconducibili all’eccesso di temperatura. Quello è solo un aspetto, e forse anche il più facile da rilevare. Ma c’è un’intera gamma di infortuni che possono essere indirettamente legati al caldo, e che spesso sfuggono alla classificazione ufficiale.

Pensiamo a un operaio edile che lavora per giorni in un cantiere sotto temperature elevate, con ritmi serrati e tempi di consegna da rispettare. In condizioni di stress termico prolungato, i riflessi si riducono, la lucidità cala, aumenta il rischio di commettere errori. Se questa persona scivola da un’impalcatura o non riesce a reagire in tempo a un pericolo, quel tipo di infortunio potrebbe non essere classificato come “caldo-correlato”, ma lo è eccome.

Il caldo non causa solo malori acuti, ma può amplificare la fatica, la distrazione, il rischio. E la prevenzione diventa difficile se non si riconosce questa connessione. Per questo è importante parlare di “temperatura-correlazione” anche per gli infortuni che non sembrano legati in modo diretto al clima.

Ci sono categorie di lavoratori particolarmente vulnerabili?

Sì, e anche in modo controintuitivo. I dati che abbiamo raccolto ci dicono, ad esempio, che i lavoratori più giovani sono particolarmente a rischio. Potrebbe sembrare strano: si tende a pensare che siano più forti, più resistenti. Ma quello che osserviamo è che spesso la loro percezione del rischio è più bassa, forse per inesperienza, forse per una sensazione di invulnerabilità tipica dell’età. Questo li espone maggiormente.

Un’altra fascia molto vulnerabile è rappresentata dai lavoratori migranti. Qui si sommano più fattori: barriere linguistiche, culturali, religiose – come il digiuno durante il Ramadan – e, in molti casi, condizioni contrattuali irregolari. Dove non ci sono contratti, spesso non c’è formazione, non ci sono dispositivi di protezione, non c’è accesso agli strumenti di allerta. È un problema enorme, perché riguarda migliaia di persone in settori come l’agricoltura, l’edilizia, la logistica.

Infine, va sottolineato che il rischio aumenta nelle microimprese. Dove le risorse sono limitate, le pratiche di prevenzione e formazione risultano più frammentarie o informali. È lì che serve uno sforzo maggiore di informazione, formazione e supporto.

Come si misura l’impatto del caldo sugli infortuni? I dati ufficiali non bastano?

Esatto. Se ci basassimo solo sulle statistiche correnti, rischieremmo di sottostimare drasticamente il fenomeno. Un decesso causato dal caldo, per esempio, nelle registrazioni ufficiali viene spesso classificato come arresto cardiaco, crisi respiratoria, malore. Il caldo resta invisibile.

Per questo, come ricercatori, usiamo modelli epidemiologici. Mettiamo in relazione le serie storiche delle temperature con gli eventi patologici – siano essi decessi, accessi in pronto soccorso o infortuni sul lavoro – e verifichiamo se durante i giorni di caldo estremo si registra un numero superiore di eventi rispetto alla media. Questo ci permette di identificare un “eccesso” di casi, cioè una quantità di infortuni che possiamo ragionevolmente attribuire al caldo.

È un approccio indispensabile per capire davvero l’entità del fenomeno. E come si dice nel nostro campo: no data, no problem. Se un problema non è misurato, non esiste nemmeno nel dibattito pubblico. E quindi non viene affrontato.

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Fonte: Valori

Autore: 
Anita Fallani


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Articolo tratto interamente da 
Valori



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