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martedì 2 settembre 2025

Caschi blu a Gaza: il punto della situazione



Articolo da Volere la luna

Il 22 agosto ho pubblicato su Il Fatto Quotidiano un articolo teso a chiarire come l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, riattivando la procedura Uniting for Peace – voluta nel lontano 1950 dagli Stati Uniti per superare i veti sovietici in Consiglio di Sicurezza –, potrebbe decidere interventi anche militari a Gaza (i soli in grado di fermare la politica sempre più aggressiva e più isolata d’Israele). Tale proposta sta suscitando un dibattito acceso sia globale (favorevole, ad esempio, Richard Falk), sia in Italia, in particolare tra ex ambasciatori. Alcuni ne contestano il fondamento giuridico; altri – con buoni argomenti – ne sostengono la non fattibilità politica a causa della non volontà di Cina e Russia di affrontare uno scontro radicale con gli Stati Uniti, che si rifletterebbe negativamente su scenari per loro prioritari (rispettivamente Ucraina e Taiwan); altri ancora si dicono favorevoli, talora introducendo variabili interessanti quali un intervento soprattutto teso a garantire l’accesso a Gaza di medicinali e viveri, con mezzi anche navali. Un approfondimento, suscettibile di ulteriori sviluppi, è urgente, anche per evitare “una rassegnazione connivente”. Per questo ripropongo il testo dell’articolo con un’attualizzazione resa necessaria dal rifiuto degli Stati Uniti di concedere il visto di ingresso ai delegati palestinesi per la prossima Assemblea generale delle Nazioni Unite. Se, in spregio delle regole istitutive dell’Onu, tale rifiuto dovesse permanere, l’assemblea potrebbe essere spostata a Ginevra, come suggeriscono alcuni ex diplomatici italiani. In ogni caso, sarebbe auspicabile l’allontanamento massiccio dei delegati dall’aula durante l’intervento di Netanyahu, in modo da costringerlo a parlare di fronte a un’aula vuota. L’importante è evitare ogni forma di rassegnazione. Torno, dunque, alla proposta iniziale.

Per fermare Netanyahu a Gaza occorre l’intervento militare dell’ONU. Altrimenti sono chiacchiere, più o meno strumentali, anche dotte, ma chiacchiere. Netanyahu è il solo a fare fatti. Gaza City è ormai sotto il suo controllo, impedisce ogni accesso di viveri, ignora il destino degli ostaggi e il Governo israeliano ha deliberato l’annessione della Cisgiordania contro ogni regola di diritto internazionale.

I media occidentali sono tuttora concentrati su Alaska, ove è avvenuto poco o niente, se non a favore di Putin, mentre a Gaza lo sterminio di bombe, assassinii e fame continua senza tregua. Si potrebbe obiettare, con la forza dei numeri, che in Ucraina la guerra sacrifica più vite umane. Ma, per l’appunto, di guerra si tratta, mentre a Gaza e in Cisgiordania è in gioco la sopravvivenza di un popolo che al suo esecutore può soltanto contrapporre qualche empito di resistenza. Secondo Janine Di Giovanni – solidamente e solitamente appartenente alla classe dirigente moderata – «nulla si confronta con Gaza, e con la complicità che la circonda. L’intenzione è quella di cancellare i Palestinesi, e noi a guardare. This must stop. Ora». Occorre aggiungere la carica autodistruttiva che anima quella politica d’Israele. Una complicità che ci coinvolge tutti, anche coloro che riconoscono lo stato virtuale della Palestina e persino invocano misure coerenti alla causa, diritti e organismi internazionali che rappresentano tutti nel mondo intero.

Il 10 agosto scorso si è riunito il Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite avendo all’ordine del giorno l’emergenza determinata dal piano di conquista, totale e definitivo di Gaza, dichiarato del presidente del consiglio d’Israele. Eppure quel consesso non ha nemmeno prodotto il voto di una risoluzione con il veto preannunciato degli Stati Uniti. Quel veto, di fronte all’emergenza riconosciuta dall’ordine dei lavori, avrebbe consentito la convocazione d’urgenza dell’Assemblea Generale con il potere di determinare la cessazione di quella che la Corte Internazionale di Giustizia ha giudicato essere un genocidio in fieri. In che modo? Non mi stanco di ripeterlo. La risoluzione 377 A, 3 novembre 1950, “Uniting for Peace”, introdotta e più volte applicata dagli Stati Uniti, alle prese con la guerra di Corea, consente all’Assemblea Generale di ordinare l’intervento militare dei caschi blu, in applicazione dell’articolo 7 della Carta dell’ONU. Nella fattispecie del conflitto in atto a Gaza, di fronte a negoziati da due anni inconcludenti per un cessate il fuoco, il solo modo di fermare lo sterminio in atto. È sufficiente la decisione di 7 membri del Consiglio di Sicurezza per investire dei suoi poteri l’Assemblea Generale, a larghissima maggioranza composta da membri che sostengono i diritti dei palestinesi, sanciti da numerosi trattati oltre che da scelte politiche.

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Fonte: Volere la luna

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Licenza: Creative Commons (non specificata la versione

Articolo tratto interamente da Volere la luna


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