mercoledì 15 novembre 2023

Il diritto di sciopero



Articolo da la Sinistra quotidiana

Uno dei tópoi fondamentali su cui la nostra Costituzione prende proprio sostanza ed esce dalla sua formalità di Carta, seppure con la necessaria “C” maiuscola, è quello che riguarda la democrazia diretta, quindi la partecipazione della popolazione alla costruzione della vita sociale, civile, politica, morale ed economica dell’intero Paese.

A questa non si contrappone, ma si complementa la democrazia rappresentativa. Insieme, le decisioni prese tanto dall’insieme della comunità nazionale quanto quelle assunte dai suoi rappresentanti eletti, danno seguito a quel complesso groviglio di norme che regolano l’esistenza di ciascuno e di tutti.

Al governo tocca la funzione di esecutore della volontà popolare e di regolatore del buon funzionamento dell’architrave istituzionale dentro il contesto più ampio della repubblica come punto di sintesi tra la sovranità popolare e la rappresentanza e le funzioni statali.

Così dovrebbe essere riguardo a tutti gli ambiti in cui si esprime ogni giorno la vita stessa di ogni italiano, di ogni cittadino, di ogni persona. Ma così non è. Perché, ad impedire che la democrazia diretta possa trovare la sua natura e giusta esplicazione, intervengono una serie di fattori contingenti che sono retti per lo più da interessi economici di non poca portata.

Succede, quindi, che i diritti più elementarmente basilari per il sostentamento della democrazia e la sua perpetuazione come essenza stessa della Repubblica italiana, siano sottoposti ad una serie di controlli preventivi che ne limitano il godimento da parte dei soggetti che ne sono attivamente e passivamente detentori.

Anche sulla parola “diritto” occorrerebbe soffermarsi un po’ di più, e non solamente sul piano del diritto costituzionale o del lavoro, ma proprio come elemento comprovante determinati rapporti di forza e interpretazione degli stessi nella società capitalistica tutt’ora esistente.

Molte volte un diritto è tale perché soddisfa interessi contrapposti pur sembrando una conquista della classe sociale più debole, disagiata e dipendente da una economia che accresce i capitali di poche decine di migliaia di persone a fronte della miseria dilagante per, invece, decine di milioni di altrettante persone.

Il diritto, storicamente preso, è un punto di partenza che non si contrappone necessariamente ai doveri ma, come nel caso del raffronto tra democrazia diretta e rappresentativa, viene a stabilire una ambivalenza che si nutre reciprocamente l’una delle qualità dell’altra.

Il diritto di sciopero, dunque, così come regolamentato dalla nostra Costituzione, ha le caratteristiche di un diritto ovviamente fondamentale e, in quanto tale, essenza stessa del rapporto democratico tra la partecipazione ai processi decisionali del e sul mondo del lavoro da parte delle maestranze così come da parte dei capitalisti.

Proprio in questa dualità oggettivamente data dal confronto di classe, si affianca al diritto all’astensione collettiva dal lavoro una sorta di concezione quasi aprioristica dello stesso, uguale e contraria. L’elemento di conquista sociale del diritto all’esercizio dello sciopero diventa anche un paradigma per gli avversari delle lavoratrici e dei lavorati che, in questo modo dimostrano la bontà del sistema capitalistico. Quasi la sua perfezione.

Una perfezione ipocritamente buonista che affonda nella narrazione di un ormai compresa legittimità di un diritto che diventa elemento dialettico fra le classi e, pur non volendolo, regola non solo i rapporti salariali tra chi presta la propria forza-lavoro per averne un salario e chi la acquista per trarne profitto, ma finisce inevitabilmente con il temperare alcune spinte all’autodeterminazione e al sovvertimento dei rapporti di forza stessi.

Il diritto di sciopero è una conquista che va difesa e ampliata, una pietra angolare del minimo sindacale (è proprio il caso di dirlo) per poter continuare a vivere in una società che metta un argine alle prepotenze del mondo dell’impresa (che è, poi, anche parte del mondo della grande finanza speculatrice) e che dia alla democrazia quel tratto sociale che non può non avere per dirsi realmente tale.

Tuttavia, se il diritto di sciopero è tutto ciò, ed è un punto di non ritorno per la classe lavoratrice e per tutti gli sfruttati moderni, per un mondo della precarietà in cui, ancora troppo spesso, questo diritto è male regolamentato, peggio gestito e troppo spesso accantonato e non riconosciuto, diversa deve essere l’analisi sullo sciopero in quanto strumento di lotta.

Lo sciopero, di per sé, è l’espressione di una società tutt’altro che vitale e progressiva. E’ il sintomo di una crisi costante e continuativa di una serie di rapporti socio-economici che sono squilibrati, a tutto vantaggio, ovviamente, di chi detiene la proprietà dei mezzi di produzione.

Dopo una felice parentesi di statalizzazione di grandi comparti produttivi o, comunque, di partecipazione statale delle industrie nevralgiche per l’Italia del secondo dopoguerra, la teorizzazione liberista delle privatizzazioni come propulsione di una nuova stagione da boom economico, ha preso il sopravvento e ha fatto innamorare di sé anche una larga fetta di sinistra compatibilista.

La nuova fase del capitalismo in crisi su scala globale ha ristretto i cordoni delle borse, ha individuato nella grande massa dei consumatori (e quindi delle lavoratrici e dei lavoratori salariati) il punto debole di una catena da rinforzare: per mettere al sicuro le rendite da profitti e dividenti aziendali, padroni e finanzieri hanno messo sotto attacco le libertà sindacali, quelle associative di un mondo del lavoro costretto a ritenere la precarietà un bene necessario.

Articolo tratto interamente da la Sinistra quotidiana 

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