Articolo da ECOR.Network
Il 18 novembre scorso è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale l’aiuti quater, il decreto con cui il Governo Meloni ha provveduto ad aggravare il sostanziale “via libera” alle trivelle già inaugurato in marzo da Draghi e Cingolani.
L’aiuti quater abbassa ulteriormente i livelli di tutela del mare e delle aree costiere, disponendo:
- l’abbassamento da 12 a 9 miglia di distanza dalla costa del limite per l’estrazione offshore di idrocarburi per i siti con un potenziale superiore a 500 milioni di mc di gas;
- la possibilità di coltivazione di idrocarburi nel tratto di mare oltre le 9 miglia al largo del Polesinei che prima d’oggi era vietata.
Gli idrocarburi in questione, una volta estratti, verrebbero poi destinati a prezzi calmierati non alle famiglie, ma ai clienti industriali a forte consumo di gas.
Il provvedimento ha incassato da subito l’invidia di Renzi (che avrebbe voluto farlo lui), la netta contrarietà di Zaia, e infine un parziale assenso di Bonaccini,
che ha espresso – senza del resto stupirci - la sua approvazione per un
aumento dell’estrazione di metano dai pozzi già esistenti.
I pareri di Zaia e Bonaccini in merito suscitano un certo interesse,
visto che presiedono le regioni italiane con le più alte percentuali di
Comuni colpiti dal fenomeno della subsidenza.
Il 53 % dei Comuni del Veneto e il 51 % di quelli dell’Emilia-Romagnaii sono infatti interessati da processi di progressivo sprofondamento, per cause prevalentemente antropiche.
Fra questi, tutti i Comuni del Polesine.
In
Polesine le prime perforazioni per l’estrazione del metano cominciarono a
terra nel 1935, con 13 pozzi e una centrale di compressione. Era
l’inizio di uno sviluppo vertiginoso: quattro anni dopo il numero dei
pozzi e delle centrali era già triplicato.
Nel 1946 il gas estratto superava i 26 milioni di m³ e nel 1950 si era arrivati a 170 milioni di m³.
Nel 1951, l'anno dell'alluvione, i pozzi attivi erano 993, concentrati soprattutto nel Delta del Po.iii
Il 14
novembre 1951, dopo due settimane di piogge intense e costanti su tutto
il bacino del Po e dei suoi tributari, la piena del fiume ruppe gli
argini nei comuni di Canaro e Occhiobello per poi dilagare nei giorni
seguenti, sommergendo 1.170 chilometri quadrati di campagne e centri
abitati.
Il bilancio fu di centouno morti, sette dispersi, 180.000 sfollati, di cui 80.000 non tornarono più.
E poi 16.000 capi di bestiame, 60 km di argini distrutti o danneggiati e oltre 950 km di strade, 52
ponti, 4100 abitazioni, 13.800 aziende agricole, 1.130 chilometri
quadrati di terreno agricolo resi sterili dai sedimenti per molto tempo.iv
Sul momento le responsabilità del disastro
vennero attribuite solo alla natura avversa ed agli errori nella
gestione degli interventi di emergenza nel corso dell’alluvione, ma il
dubbio che lo sprofondamento dei suoli, e di conseguenza degli argini,
potesse agire da concausa, cominciò lentamente a farsi strada.
“In seguito proprio a quel disastro, iniziarono le ricerche per capire cosa fosse accaduto. Da subito si notò l’abbassamento e immediatamente il collegamento con l’estrazione del periodo venne fatto. Ovviamente, non venne subito data la giusta importanza al problema e nel 1959 si parlava [nella sola provincia di Rovigo. NdR] di 1424 pozzi per la bellezza di oltre 281 milioni di m³ di gas”.v
Fu il
picco dell’estrazione a terra. Nel 1960 iniziò, prima in via
sperimentale e poi in modo sistematico, la chiusura dei pozzi del
Polesine.
Qualcosa era successo: altri sfondamenti degli argini, altre inondazioni non solo in presenza di eventi estremi.
Nel maggio 1959 il sismologo Pietro Caloi portava a termine un'ampia
relazione sui fenomeni di sprofondamento in atto nel Delta del Po. Tale
relazione si concludeva "con la provata necessità della immediata
chiusura delle migliaia di pozzi di estrazione di acque metanifere, ai
quali doveva attribuirsi la quasi totalità delle enormi flessioni del
terreno osservate nel Delta....
L'estrazione dal sottosuolo di queste grandi quantità d'acqua
[metanifera] che, già intorno al 1957, era per la sola provincia di
Rovigo di quasi 230 milioni di m3 — effettuata a mezzo di circa 1.400
pozzi attivi e, nella zona del Delta, di 170 milioni di m3 (900 pozzi
attivi) — portava quindi ad un progressivo abbassamento del livello piezometrico (da 20 a 30 m sotto il piano di campagna”.vi
Stesse conclusioni, più recenti, del Consorzio di Bonifica Delta Po Adige:
“La
subsidenza ha interessato quasi tutto il delta e determinato
abbassamenti che hanno raggiunto valori massimi di quasi tre metri e
valori medi di due metri. Anche questo fatto, meno traumatico, lento a
manifestarsi ma altamente insidioso, ha influenzato in modo determinante
la rete idrografica del basso Po e la storia delle rotte e inondazioni.
Le aree ai lati delle arginature dei rami
del Po si sono abbassate fino a quota 1-2 m sotto il livello del mare
rendendo necessari rinforzi e rialzi degli argini e interventi
conseguenti all’aggravamento dei pericoli di sifonamento. Collegate,
molto probabilmente, a questa situazione si ebbero, con piene non
rilevanti, due rotte nell’argine sinistro del Po di Goro nel giugno del
1957 e nel novembre del 1960.
A causa della subsidenza si aggravò
notevolmente anche il problema della difesa a mare sia per la riduzione
del franco della sommità degli argini esistenti sia per l’aumento della
profondità dei fondali antistanti le arginature, con conseguente
esposizione a una più marcata azione del moto ondoso.
Per rotte dovute a forti mareggiate si ebbero allagamenti nel 1957 e nel
1958 in provincia di Rovigo (Isola della Donzella) e in provincia di
Ferrara (Bonifica di Mesola). Nel novembre del 1966 [contemporaneamente a forti alluvioni in tutta Italia, la più grave a Firenze. NdR] acque alte e mareggiate eccezionali causarono un’ampia falla nell’argine della Sacca di Scardovari.
Oltre due terzi del territorio dell’Isola della Donzella furono sommersi dalle acque del mare”.vii
Gli effetti permanenti dello sprofondamento possiamo ancora vederli all’Isola della Batteria, sommersa nel 1957: https://www.youtube.com/watch?v=zMGHoV_4Ao8
“Nel delta del Po questa subsidenza si manifestò con velocità di abbassamento dell’ordine di 20-30 cm all’anno sopra aree molto estese, specialmente nel decennio 1950-60. Il gas metano misto ad acqua, con un rapporto tra volume di gas e volume di acqua variabile tra 1 e 0.7, veniva estratto alla fine degli anni Cinquanta da circa 400 pozzi spinti a profondità variabile tra 100 e 650 m e profondità media di 350 m, con abbattimenti della pressione dell’acqua anche superiori ai 50 m e con volumi annui estratti di centinaia di milioni di metri cubi. Nel 1960 iniziò, prima in via sperimentale e poi in modo sistematico, la chiusura dei pozzi. Nel 1963 le estrazioni vennero definitivamente sospese dal Ministero dell’Industria. L’efficacia del provvedimento si manifestò con un progressivo e generale rallentamento degli abbassamenti e con la risalita delle quote piezometriche, che nel giro di cinque anni recuperarono i valori iniziali”.viii
Ovviamente,
il recupero non significava il ritorno del suolo allo stato originario,
ma la diminuzione della velocità del suo abbassamento. Il danno da
questo punto di vista è permanente e continua a generare conseguenze,
che si tenta di contrastare con la continua manutenzione degli argini,
dei canali e con il lavoro costante di 38 idrovore e 117 pompe.
Attualmente, come descrive Giancarlo Mantovani, direttore Consorzio Bonifica Delta del Po:
“il mare Adriatico se non ci fossero gli argini e tutto il sistema
di sollevamento delle acque ce lo andremmo a trovare all’altezza di
Villadose, a metà strada fra Adria e Rovigo, quindi a circa 45
chilometri … Due milioni e mezzo all’anno [la bolletta energetica delle idrovore] solamente per il Delta del Po e altrettanti per il resto Polesine”. ix
A questo si aggiungono i costi (e anche gli
impatti) delle opere di contrasto degli effetti della subsidenza sulle
coste: erosione dei litorali, arretramento delle linea di battigia,
aumento delle incursioni marine, inondazioni, salinizzazione dei terreni
costieri, dei canali di irrigazione e delle falde acquifere, con
relativi effetti anche sugli acquedotti.
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Fonte: ECOR.Network
Autore: redazione Ecor.Network
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Articolo tratto interamente da ECOR.Network
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