Articolo da La Fionda
Per lui, che il Brasile smettesse di essere vittima del regime militare al tempo presieduto da Joao Figueiredo, era un pensiero fisso. Si rifiutava visceralmente di esserne complice, tipico atteggiamento, quest’ultimo, di chi si limita a osservare e basta. Dare la possibilità al suo Paese di poter essere democratico, il che avrebbe significato convincere milioni di connazionali talvolta scettici sulla bontà dell’idea, non era certo un proposito semplice, ragion per cui servirsi di un mezzo nazionalpopolare come potesse essere il calcio si rivelò una scelta geniale e innovativa. Nacque così la Democrazia Corinthiana. Un esperimento sociale unico, probabilmente irripetibile, di gestione appunto democratica dell’iconico club del Corinthians, quello nato nelle periferie operaie di San Paolo e quindi espressione delle classi meno abbienti, del quale Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, detto Sócrates, divenne il leader ideologico.
Banalizzando un po’ il concetto, significava consentire ai giocatori di avere voce in capitolo in tutti gli aspetti connessi all’organizzazione del club e, al lato pratico, ciò si traduceva nella convocazione dell’assemblea popolare nella quale mettere ai voti ciascuna decisione si fosse resa necessaria. Dalla gestione economica a quella dell’allenamento, passando per la scelta dei nuovi giocatori da acquistare e la ridistribuzione degli incassi-partita. L’obiettivo, al di là delle migliori sorti sportive possibili della compagine e dei suoi calciatori, era quello di dare l’esempio. Di veicolare un messaggio politico globale che la gente comune potesse riconoscere come esportabile dal micro al macro. E se la Democrazia Corinthiana non fu in grado di cambiare, lei da sola, le sorti di un’intera nazione, parafrasando Lula – presidente brasiliano – “contribuì a far arrivare a un grandissimo numero di persone un messaggio di cambiamento in quegli anni difficili di transizione”. Insomma, missione compiuta o quasi. In senso assoluto, la battaglia per istituire l’elezione diretta del Presidente, per la quale Sócrates mise senza riserve anima e volto in rappresentanza di milioni di concittadini scesi speranzosi nelle piazze, non ebbe il risultato sperato, con la Camera brasiliana che non riuscì a esprimere la maggioranza necessaria a un cambiamento che sarebbe stato epocale. Per la democrazia, quindi, c’era ancora da lavorare, oltre che da attendere, ma, se è vero che ogni viaggio comincia sempre con un passo, quello fu un coraggioso impulso a compierlo.
In compenso, andò decisamente meglio al Corinthians che, dopo qualche sbandamento iniziale, sotto la gestione “dei molti” inanellò due campionati vittoriosi in fila, accadimento che in Brasile non si verificava da mezzo secolo. Lo aveva dichiarato e rispettò la parola data: qualora l’emendamento non avesse superato lo scoglio della Camera, lui avrebbe lasciato un Brasile che non lo rappresentava affatto, accettando una delle tante offerte provenienti dall’Europa. Fu proprio quel patto ideologico il presupposto dell’arrivo di Sócrates in Italia, quando ancora il nostro campionato racchiudeva il gotha mondiale della disciplina. Emblematico il suo approdo a Firenze: “Chi è l’italiano che stima di più, Mazzola o Rivera?”, gli chiese un giornalista evidentemente poco informato sull’interlocutore. “Non li conosco – gli rispose quasi stizzito – sono qui per leggere Antonio Gramsci in lingua originale e studiare la storia del movimento operaio”. Perché Sócrates, che il gol lo ha sempre festeggiato sollevando il pugno chiuso, è cresciuto a pane, per la verità nemmeno troppo da bambino, e socialismo. Il nome scelto per lui, invece, lo deve alla passione paterna per i classici della filosofia greca e così, dopo aver letto La Repubblica di Platone, il primogenito di Raimundo Brasileiro Sampaio diviene, appunto, Sócrates. Come il grande discepolo.
Due i suoi veri amori: lo studio, altra eredità familiare, e, ovviamente, il calcio. Tanto che Sócrates trovò il modo di conciliarli, e a chi fosse venuto in mente di domandargli come facesse a sostenere entrambi gli impegni era solito rispondere: “Facile, non mi alleno”. Infatti, ai tempi del Botafogo, quelli che fanno da preludio alle stagioni di stanza a San Paolo, l’allenatore si era rassegnato a vederlo arrivare in maglietta e pantaloncini solo il giorno della partita; una partita vinta spesso e volentieri grazie alle prodezze di Sócrates che, essendo determinante, evitava così le ramanzine della dirigenza indispettita da una serietà atletica – diciamo – così così. Tra un gol e l’altro, diventò medico, per la precisione pediatra, e il traguardo universitario gli valse il soprannome, uno dei tanti, di “Dottore”, che si terrà appiccicato per tutta la vita.
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Fonte: La Fionda
Autore: Matteo Parini
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Articolo tratto interamente da La Fionda
Photo credit Jorge Henrique Singh, CC BY-SA 3.0, da Wikimedia Commons
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