Articolo da Doppiozero
Fine agosto 1975. Nei Rockfield Studios di Monmouth, in Galles, i Queen si apprestano a registrare Bohemian Rhapsody, la canzone che di lì a poco li avrebbe proiettati nell’olimpo del rock. Nel breve saggio Little High, Little Low: Hidden Repetition, Long-Range Contour and Classical Form in Queen’s Bohemian Rhapsody, Jack Boss, professore di teoria musicale e composizione all’Università dell’Oregon, fa notare come i motivi che compongono quel brano si succedano in modo fin troppo organizzato per essere considerati, a dispetto del titolo, rapsodici, e riassume così la struttura della canzone: 1. Introduzione; 2. Esposizione del tema, ripetuto due volte; 3. Transizione (assolo di chitarra); 4. Primo sviluppo (parte operistica); 5. Secondo sviluppo (parte hard-rock); 6. Conclusione (ballad). Senza seguire il professore fin nei meandri dell’analisi musicologica, balza subito all’occhio come il brano non rispetti alcuna forma di canzone conosciuta. Misurato a distanza di cinquant’anni, prima ancora che un azzardo in chiave prog (siamo, non dimentichiamo, a metà degli anni ’70, ancora nel vivo della cosiddetta stagione sinfonica e progressive del rock, dove la forma canzone saltò letteralmente per aria), quel brano dei Queen pare configurarsi come una raccolta di motivi o di vignette pop che ambivano a delineare uno spettro stilistico vasto tanto quanto il bisogno del gruppo di esprimere il proprio estro ma anche, nel caso dell’autore, Freddie Mercury, la sua eclettica personalità.
Nel 1975 i Queen avevano alle spalle tre dischi, godevano di buona reputazione fra gli addetti ai lavori e un crescente seguito di pubblico. Il brano Killer Queen dal disco precedente, Sheer Heart Attack, aveva raggiunto il secondo posto nelle classifiche di vendita inglesi, e presentava una melodia che poteva richiamare una penna illustre come quella di Paul McCartney, ma anche un arrangiamento vocale e delle scelte di modulazione di chiara ascendenza beatlesiana, sorta di residui psichedelici innestati su un impianto rock tipico dei primi anni ‘70. Quella canzone lascia chiaramente intendere come Bohemian Rhapsody non fosse un episodio isolato o fortuito, ma la naturale prosecuzione di un percorso di individuazione artistica iniziato anni prima, un percorso fatto di un amalgama di stili dove all’amato hard rock s’accostavano richiami alla vocalità operistica (una fissa di Freddie Mercury, il quale più avanti duetterà anche con il soprano Monserrat Caballé), un indubbio talento per la melodia pop e per gli impasti vocali, l’originale lirismo metal di Brian May, il gusto e il taglio di certo teatro musicale leggero che da Gilbert e Sullivan porta dritti a Beyond the Fringe e ai Monty Phyton, o ancora le pantomime musicali di Noel Coward (i Queen come improbabile punto d’incontro fra il burlesque, il vaudeville e i Led Zeppelin), la messa in scena di una pomposità – maestosità regale, avrebbero poi specificato i diretti interessati – che culminerà a fine decennio negli inni da stadio che contribuiranno, e non poco, a trasformare l’esperienza del concerto rock avvicinandolo sempre più alla dimensione da curva ultrà – We will rock you, We are the champions o Radio Gaga, più avanti – mista a una frivolezza al limite della parodia e del kitsch, di fronte alla quale l’appassionato di rock più intransigente ha sempre nutrito qualche perplessità (si pensi, su tutti, al videoclip di I want to break free, dove al travestitismo glam d’un tratto subentra la farsa in stile sitcom). Emblematico in questo senso era un brano come The march of the black queen (oltre sei minuti di durata), da Queen II, il secondo disco della band, dove la tentazione per il pastiche, il melodramma e la stratificazione vocale, così come l’enfasi pianistica e chitarristica di Bohemian Rhapsody, sono già tutte presenti.
Nell’omonimo Bohemian Rhapsody, biopic che racconta insieme la storia della band e quella di Freddie Mercury, la genesi del brano ci viene illustrata nel dettaglio (Rami Malek nei panni di Mercury, premio Oscar per quell’interpretazione, intento a comporre testo e musica del brano), seguendone poi l’accurato montaggio nei Rockfield Studios, per arrivare infine alla scena madre con l’arcigno discografico, incredulo di fronte alla pretesa della band di fare di quel brano da sei minuti il singolo con cui lanciare il nuovo disco, con l’aggravante che quel disco (un disco di rock nell’anno di grazia 1975), si vorrebbe intitolarlo A Night at the Opera, una notte all’opera. Di che togliere il sonno al più intrepido dei discografici. Eppure, come viene sottolineato nel film, quella di Bohemian Rhapsody fu una delle grandi scommesse vinte del rock. Il rischio preso con quella canzone, quando i Queen miravano a conquistarsi un posto fisso nelle classifiche di vendita, appare oggi persino più audace di quanto non potesse apparire allora. Il brano scalò le chart inglesi in un attimo, come se il pubblico non aspettasse altro, un’opera rock da sei minuti dove succedeva di tutto. Se la canzone appare complessa sul piano armonico e unica dal punto di vista formale (un azzardo in verità non raro per il rock del periodo; Shine on you crazy diamond dei Pink Floyd fu pubblicata quello stesso anno: ventisei minuti di musica suddivisi in nove movimenti), la sua vera sfida consiste nell’aver instillato uno sbuffo di melodramma se non proprio un alone di classicità nel pop, miscelando in modo fors’anche velleitario delle melodie che avrebbero potuto stare in una canzone degli ABBA all’enfasi e all’ampollosità che la band coltivava da sempre. Che poi del testo, all’epoca, si capisse poco o nulla (Galileo Figaro magnifico-ooo! e Bismillah!, fra le altre cose), poco importava. Soltanto in anni recenti il testo della canzone ha trovato delle analisi serie e circostanziate. Il chitarrista Brian May ha fatto notare come all’epoca Mercury stesse cercando sé stesso, e che il testo della canzone riflette questa sua ricerca di identità:
Goodbye everybody, I’ve got to go
Gotta leave you all behind and face the truth
(Addio a tutti, devo andare / Devo lasciarvi alle spalle e affrontare la verità)
Quella storica canzone dei Queen va proiettata nel quadro di una stagione di sperimentazione musicale ormai matura e per molti versi già codificata, ma anche dentro la pittoresca stagione del travestitismo e del glam rock di stampo britannico dei primi anni ’70, di cui i Queen, e in particolare proprio Freddie Mercury, furono degli assoluti protagonisti. Una canzone pop riuscita di solito ci consegna un’emozione precisa; Bohemian Rhapsody è una sinfonia nella quale l’organizzazione delle emozioni si fa fluida, in continua evoluzione, non costretta dentro il classico schema strofa/ritornello; racconta una storia di cui forse ignoriamo il senso ma di cui avvertiamo distintamente lo spettro e il peso nel suo sviluppo tematico. Il trasporto ultimo del rock, se vogliamo, dove il kick, l’innesco di un effetto suscettibile di traghettarti altrove, non è più affidato soltanto alle droghe, ai sintetizzatori o al volume saturato degli amplificatori, ma in modo sempre più sfacciato alla pura emozione, un’emozione caricata ad arte da una band che non avrebbe mai smesso di cercare un’adesione totalmente partecipe da parte del suo pubblico.
Continua la lettura su Doppiozero
Fonte: Doppiozero
Autore: Corrado Antonini
Licenza: This is work is licensed under Creative Commons Attribution-NonCommercial-ShareAlike 4.0 International
Articolo tratto interamente da Doppiozero
Photo credit Thomas Steffan, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons
Nessun commento:
Posta un commento
I commenti sono in moderazione e sono pubblicati prima possibile. Si prega di non inserire collegamenti attivi, altrimenti saranno eliminati. L'opinione dei lettori è l'anima dei blog e ringrazio tutti per la partecipazione. Vi ricordo, prima di lasciare qualche commento, di leggere attentamente la privacy policy. Ricordatevi che lasciando un commento nel modulo, il vostro username resterà inserito nella pagina web e sarà cliccabile, inoltre potrà portare al vostro profilo a seconda della impostazione che si è scelta.