Articolo da Il Manifesto
Più che «salario minino», salario zero. Nel giorno in cui l’Istat stima il tasso di inflazione stabile all’11,8% – valore più alto in occidente – la maggioranza Meloni boccia il «salario minimo» in tutte le sue versioni, compresa quella mediata dall’ex ministero del Lavoro Andrea Orlando e che vedeva i sindacati confederali a favore: estensione erga omnes dei minimi del contratti nazionali e, solo per i lavoratori esclusi, introduzione di un salario minimo orario di 9 euro comprensivo di tutte le voci complementariì (contributi, Tfr, ferie, malattia) e definito Trattamento economico complessivo (Tec).
A GESTIRE IL DIBATTITO alla Camera è stato l’ineffabile neo sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon (demiurgo del flop Quota 100 e ora Quota 103) che in poche parole si è fatto beffa perfino della Direttiva europea che impone una sostanziale introduzione del «salario minimo» nei (pochi) paesi ancora sprovvisti entro il 15 novembre 2024. Proprio i due anni di tempo-limite sono stati la ragione addotta dalla maggioranza per bocciare il provvedimento condendolo di farneticanti e contraddittori impegni. No all’introduzione del salario minimo, al suo posto il governo dovrà invece «raggiungere l’obiettivo della tutela dei diritti dei lavoratori attraverso una serie di iniziative, a partire dall’attivazione di percorsi interlocutori tra le parti non coinvolti nella contrattazione collettiva», «monitorare e comprendere motivi della non applicazione, avviare un percorso di analisi rispetto alla contrattazione collettiva nazionale» (sic). I 163 voti a favore da parte della maggioranza, 121 no (M5S, Pd e Avs) e 19 astenuti (Azione-Iv). Respinti tutti i testi delle opposizioni a prima firma di Andrea Orlando (Pd), Giuseppe Conte (M5S)e Marco Grimaldi (Avs), financo quella minimale di Matteo Richetti.
In questo modo vanno al macero almeno 4 anni di lavoro fra governi e sindacati prima sulla proposta Catalfo (9 euro «soglia dignitosa valida per tutti») e poi su quella Orlando, che ieri ha portato il suo partito a votare a favore di tutte le proposte, anche quella del M5s.
Il voto è stato criticato da tutti i sindacati, perfino dalla Cisl, la più recalcitrante al «salario minimo legale»: «È paradossale che dopo mesi di proficuo lavoro anziché capitalizzarne gli esiti si ricominci da zero il dibattito», protesta il segrerario confederale Giulio Romani.
IL TUTTO AVVIENE A CONFERMA di un dibattito politico
e mediatico paradossale. Tutti sostengono la gravità della situazione
di impoverimento generale dovuto all’aumento dell’inflazione ma allo
stesso tempo gridando e denunciando i pochi casi di meccanismi di tutela
automatica che garantiscono in parte adeguamenti all’inflazione stessa.
L’esempio delle pensioni è lampante: già il 9 novembre il ministro
Giorgetti aveva denunciato l’impatto nefasto per i conti pubblici (50
miliardi in 10 anni) dell’indicizzazione delle pensioni: il meccanismo
di perequazione con cui l’Istat ha fissato al 7,3% medio l’aumento degli
assegni per difenderli in parte dal caro-vita (all’11%). Quella
dichiarazione era il prodromo del taglio ora previsto in legge di
Bilancio. Indicizzazione tagliata per oltre 4,3 milioni di pensionati e
risparmio per le casse statali di oltre 36,8 miliardi sempre in 10 anni.
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Fonte: Il Manifesto
Autore: Massimo Franchi
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Articolo tratto interamente da Il Manifesto
Questo governo dà ai lavoratori dipendenti solo quella che avanza. La priorità è per il lavoro autonomo autorizzato a frodare il fisco con l'aumento del limite per pagamenti e POS.
RispondiEliminaSono fascisti.
Sono Robin Hood al contrario.
EliminaAnche sulle pensioni dopo una apertura ora stanno invece o cmq sembra vogliano, limitare molto la possibilità per il 2023 di andare in pensione. Non li vedo come fascisti, ma se queste decisioni fossero i primi passi del loro percorso, allora sicuramente sarebbero dei mentitori ossia i soliti bugiardi che promettono e poi non mantengono.
RispondiEliminaUn governo a favore dei potenti e dei ricchi.
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