sabato 5 novembre 2022

In cerca di pace



Articolo da la Sinistra quotidiana

Che cos’è veramente la pace? E’ una idea innata soltanto platonicamente definibile come “assenza di guerra“, oppure è per davvero un nuovo modo di pensare e poi dare seguito ad una nuova umanità che non la contempli più a trecentosessanta gradi?

Se si trattasse solo di pensare la pace per poterne fare un principio ancestrale da realizzare, si finirebbe con l’idealizzarla, con il mitizzarne il potenziale di innovazione che avrebbe se esistesse. Un po’ come tutte le grandi idee di liberazione dell’essere animale-umano e degli animali non umani, nonché del pianeta intero, dallo sfruttamento che noi stessi ci infliggiamo ed a cui costringiamo i nostri dissimili.

No, la pace non è un concetto astratto, per quanto possa sembrare tale visto che è irrealizzabile come stile di vita, convivenza e mantenimento di un equilibrio più che soddisfacente tra i popoli e dentro le comunità popolari stesse. La pace, verrebbe da dire, è una dimensione altra rispetto a quella che noi stessi chiamiamo oggi “pace“.

Perché noi, pur apprezzando lo “spirito” della pace, il suo alto concetto di sedazione di tutti i conflitti armati, ci riferiamo continuamente a periodi di interposizione tra due guerre; ed anche quando affermiamo che le guerre non si devono più combattere non siamo però in grado di immaginare nemmeno lontanamente, oggi e domani, un mondo in cui questo possa verificarsi concretamente.

La spiegazione non è semplice ma, quanto meno, è sufficientemente comprensibile perché è, se non altro, evidente: la conflittualità sociale, la lotta fra le classi, la preservazione del potere da parte di una determinata classe, quindi la dominazione di una parte della popolazione (sempre più piccola e sempre più ricca e iperprivilegiata) sul resto dell’umanità sono tutti elementi che definiscono i motivi per cui quella che Kant definiva “la pace perpetua” è oggettivamente impossibile da raggiungere.

Lottare per la tendenza all’azzeramento dei conflitti armati, sia chiaro, è necessario e imprescindibile. Perché ormai siamo tanto assuefatti all’idea della guerra come costante della Storia e dell’attualità, da non considerare più grave e degno di attenzione il pullulare di scontri pluridecennali tra nazioni, interetnici: guerra civili che si combattono ben oltre i confini temporali delle singole generazioni, che travalicano i secoli, che affondano le radici addirittura nei millenni precedenti.

Oltre 140 guerre sono sparse per un pianeta devastato dalla crisi ambientale, dove la distribuzione della ricchezza che si potrebbe produrre rispettandolo è sempre più inversamente proporzionale allo stato sociale delle persone: chi è più ricco lo continua ad essere e diventare in maniera esponenziale e così chi viene trascinato, di conseguenza, nella voragine della nuova povertà globale e locale.

La giustizia sociale, la rivendicazione del diritto ad una esistenza dignitosa, in cui non si debbano elemosinare le cure sanitarie, l’accesso ai beni comuni primari (come l’acqua, il cibo, la casa, tra i primi e più dirimenti) fa parte del piedistallo su cui deve poggiare una moderna domanda di pace a tutto tondo. Dobbiamo cambiare punto di vista e smetterla di pensare alla pace come mera assenza di guerra. Dobbiamo pensare alla pace come progetto di rinascita di una umanità che la smetta di fare la guerra anche alle altre specie viventi.

Non basta lottare per abbattere lo sfruttamento dell’essere umano su sé stesso se non superiamo anche lo sfruttamento che esercitiamo su tutti gli animali non umani (poiché noi siamo “animali” e lo siamo da “umani“) e sulla natura nella sua straordinaria complessità. Riscrivo qui ciò che ho già lungamente trattato in tanti altri contributi alla discussione: la liberazione umana viaggia di pari passo con quella animale e con quella della casa in cui tutte e tutti abitiamo.

Contribuire alla causa della “pace perpetua” vuol dire oggi far fare un salto di qualità alla causa (che chiamarla “lotta” rimanda troppo ad un concetto che contraddice quello che stiamo trattando nello specifico) del lavoro e di tutti gli sfruttati: anticapitalismo, antispecismo e antimilitarismo sono parenti stretti fra loro, così come lo sono con l’antirazzismo e tutto ciò che contraddice e decostruisce quel pregiudizio patriarcale che è una fisiognomica sembianza della bruttura disumana in cui ci siamo (in)coscientemente abituati a vivere.

Per queste ragioni, i presupposti ideali dei movimenti sociali e civili, ambientali, scolastici, giovanili e senili, politici e sindacali, culturali e morali devono poter trovare una convergenza in un lavoro di avvicinamento progressivo.

Un processo di accostamento reciproco dettato da una esclusione dei troppi giustificazionismi e dei tantissimi alibi che ci siamo concessi quando abbiamo limitato la prospettiva dell’evoluzione alla sola sfera umana, al solo contesto del vertice di una piramide specista alla cui cima sta l’essere (dis)umano e per cui, anche dai marxisti e dai comunisti, veniva dato per scontato che, una volta liberata dallo sfruttamento del sistema di produzione capitalistico, l’umanità sarebbe stata libera di vivere, per l’appunto, in pace.

Articolo tratto interamente da la Sinistra quotidiana 


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