Articolo da Centro Studi Sereno Regis
Il 1938 è stato uno degli anni più bui della storia
italiana. Anzi, diciamolo in modo meno vago e più esplicito, quell’anno
ha visto materializzarsi l’evento più vergognoso, perlomeno sul versante
della politica interna, da quando nel 1861 l’Italia è diventata uno
stato unitario, vale a dire la cancellazione di alcuni diritti
fondamentali di una parte della popolazione, responsabile agli occhi di
chi governava il Paese di una cosa soltanto: essere di «razza ebraica».
Così suona l’espressione che si può leggere nel testo dei provvedimenti
legislativi che in quell’anno sancirono le basi di questa
discriminazione legale (dalla quale, per particolari benemerenze, alcune
famiglie ebraiche furono escluse, ad esempio quelle con un componente
caduto in guerra o iscritto al Partito Nazionale Fascista prima del
1923).
Queste si possono considerare le tappe principali: il 5 settembre apparve il decreto legge Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola italiana, che impedì ai ragazzi ebrei la frequentazione della scuola pubblica; il 7 dello stesso mese un altro decreto, Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri,
sancì per questi ultimi l’impossibilità di prendere dimora in Italia e
tolse la cittadinanza a quanti l’avevano ottenuta negli anni precedenti,
a partire dal 1919. Il 6 ottobre la Dichiarazione sulla razza del
Gran Consiglio del Fascismo aumentò il fardello delle discriminazioni
nei confronti della popolazione ebraica. Infine il 17 novembre del 1938
un decreto legge intitolato Provvedimenti per la difesa della razza italianadiede una prima sistematizzazione alle disposizioni del Gran Consiglio e ai decreti legge apparsi nei mesi precedenti.
Nella prima parte dell’anno, quando le leggi vere e
proprie non erano ancora state formulate, si poté assistere al
progressivo insorgere di un clima ostile nei confronti degli ebrei, in
gran parte fomentato dalla propaganda antisemita dei mezzi di
informazione. Il documento noto come Manifesto della razza rappresenta
forse il momento più significativo ed emblematico di questa lugubre
temperie culturale che andava formandosi; apparso per la prima volta il
14 luglio su «Il Giornale d’Italia» venne ripreso nei giorni seguenti da
altri giornali e riviste.
L’avvio di questa discriminazione razziale costituirà la premessa della devastazione della Shoahche, dopo l’8 settembre del 1943, comincerà a funestare anche il territorio italiano. Le deportazioni verso i lager nazisti
furono l’atto estremo e l’esito mortale di quella barbarie antisemita a
cui nel 1938 il fascismo, qui da noi, aveva dato il via.
Non è facile, anche per chi sia dotato delle
migliori intenzioni, riuscire a far agire su se stessi il ricordo di
eventi di tale smisurata grandezza. Come si può abbracciare una memoria
di sofferenza così vasta? La sola Italia conta circa 7.000 morti nei
campi di concentramento e 6.000 ebrei costretti, negli anni tra il 1938 e
il 1941, a dolorosi esili forzati. La vita quotidiana di oltre 40.000
persone, caricata di angoscia e disperazione, venne stravolta quasi da
un giorno all’altro. Allora dopo aver ricordato la vicenda in modo
collettivo, per provare ad accostarsi a tanta sofferenza può essere
indicato riversare la propria attenzione su una sola di queste vite
oppresse, seguire una singola traiettoria esistenziale capace di
rivelarci meglio il senso dell’intero. La storia che si è scelto di
raccontare è quella di un uomo di sport, lo sport più popolare in
Italia, il calcio.
Nato in Ungheria alla fine del secolo, Arpad Weisz è
stato prima un buon giocatore, arrivato sino alla nazionale del proprio
Paese, poi un allenatore, la cui carriera si è svolta quasi interamente
in Italia. Non un allenatore fra i tanti però, bensì uno dei padri
riconosciuti del calcio moderno. Del 1930 è un manuale, Il giuoco del calcio,
da lui scritto assieme ad Aldo Molinari, che sarebbe ben presto
divenuto un testo di riferimento in materia. Un libro che proprio
quest’anno, in occasione del Giorno della Memoria, è stato ripubblicato
dalle Edizioni Minerva. All’epoca uscì con un’introduzione elogiativa di
Vittorio Pozzo, a sua volta destinato a diventare una leggenda del
calcio italiano grazie ai due campionati del mondo vinti
consecutivamente nel 1934 e nel 1938.
Weisz è un innovatore, nella tattica di gioco e nel
metodo di allenamento, e la sua maestria trova conferma nei molti
trionfi ottenuti. Ad oggi resta il più giovane allenatore ad aver vinto
un campionato italiano, quello del 1929-30, che vide per la prima volta
la serie A strutturata con un girone unico. Weisz aveva allora 34 anni e
guidava l’Internazionale, squadra costretta dal fascismo a mutare il
proprio nome in Ambrosiana per evitare possibili ammiccamenti alla
galassia socialista. All’Inter fece esordire in prima squadra il
diciassettenne Giuseppe Meazza, uno dei più forti calciatori italiani di
sempre. Altri due scudetti arriveranno con il Bologna, nel 1936 e nel
1937, anno in cui vinse anche il Trofeo dell’Esposizione a Parigi, una
competizione antesignana dell’odierna Champions League.
Nel 1938 Weisz (da tempo divenuto Veisz, causa
l’allergia del regime a quella lettera iniziale di matrice straniera)
può dunque ritenersi un uomo all’apice della sua carriera professionale,
un maestro di calcio stimato, abituato a comparire sui giornali
sportivi, benvoluto dai propri giocatori, con una moglie affascinante, a
quanto riportano le testimonianze dell’epoca, e due bambini di 8 e 4
anni. Ma la vita della famiglia Weisz è sul punto di essere stravolta,
di sprofondare nel baratro senz’altra ragione che quella di essere
formata da un uomo e una donna di «razza ebraica» e da due figli che,
anche se battezzati come cattolici, le leggi antisemite assimilano in
tutto ai genitori: «è di razza ebraica colui che è nato da genitori
entrambi di razza ebraica, anche se appartenga a religione diversa da
quella ebraica».
Razzisti convinti o meno a non pochi italiani la
discriminazione fa semplicemente e cinicamente comodo, si liberano dei
posti da occupare, si crea maggiore spazio per delle carriere
professionali. Gli ebrei vengono accusati di essere presenti in modo
sproporzionato, rispetto al loro numero complessivo, in alcuni ruoli
sociali di rilievo. Ad allenare in serie A, ad esempio, sono 2 in un
campionato a 16 squadre. Troppi, secondo il nuovo sentire. Il collega di
Weisz, Ernö «Egri» Erbstein, è ungherese anche lui e come lui un nome
di rilievo nella storia dell’Italia calcistica, sarà direttore tecnico e
allenatore del Grande Torino. Più fortunato di Weisz, riuscì con i suoi
famigliari ad attraversare indenne l’abisso della Shoah. Ma
anche per «Egri» il destino avrà in serbo una scomparsa prematura,
morirà con tutta la sua squadra nello schianto di Superga il 4 maggio
1949.
Dunque Weisz e la sua famiglia, in quel 1938, si
eclissano. Il 26 ottobre è costretto a lasciare l’incarico di allenatore
del Bologna; a suo figlio Roberto, il maggiore, viene impedita
l’iscrizione alla terza elementare. È l’ingresso in un cono d’ombra, i
giornali sportivi che tanto spazio gli avevano dedicato e con i quali
aveva talvolta collaborato riservano al suo congedo una semplice riga:
«Quanto a Veisz, sembra che lascerà l’Italia a fine anno», così il
«Calcio illustrato», che soltanto l’anno prima l’aveva celebrato come
«un’intelligenza purtroppo non comune nei nostri allenatori».
Le tracce di Arpad Weisz per molti decenni sono
sembrate perdersi, nemmeno la sua morte nel genocidio ebraico poteva
considerarsi un dato certo, anche se era supposta per l’assenza di
notizie documentate e per il mancato rientro in Italia. Con una sola
eccezione, negli anni Sessanta quando il Bologna guidato dal grande
Fulvio Bernardini, che di Weisz era stato allievo, conquistò il suo
ultimo titolo sulla rivista della squadra comparirono alcune notizie
precise sulla sorte dell’allenatore ungherese e della sua famiglia.
Null’altro. Persino Enzo Biagi, che negli anni Trenta abitava a Bologna e
tifava per la squadra della città, era all’oscuro di tutto, in Novant’anni di emozioni accennò a Weisz soltanto per dire che «era molto bravo ma anche ebreo e chi sa come è finito».
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Fonte: Centro Studi Sereno Regis
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Autore: Massimiliano Fortuna
Licenza: 
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.

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Caro Vincenzo, non conoscevo questo personaggio e la sua storia.
RispondiEliminaCiao e buon fine settimana con un forte abbraccio e un sorriso:-)
Tomaso
Serena notte.
EliminaMolto interessante questa storia, anzi Storia. Mi sono segnato il titolo del libro e il nome di questo allenatore per qualche regalo ad hoc a mio nipote, che è un allenatore in ascesa (lo scorso anno gli ho regalato il pallone di emergency). Credo siano cose importanti.
RispondiEliminaGiusto sostenere Emergency.
EliminaChissà come è finito... mamma mia, che brividi.
RispondiEliminaUna delle pagine più buie dell'umanità.
EliminaChe tristezza!!
RispondiEliminaMai dimenticare!
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