venerdì 10 febbraio 2017

Lavorare meno, lavorare tutti




Articolo da Il Corsaro - l'altra informazione 

Negli ultimi decenni il mercato del lavoro italiano è stato al centro di numerosi interventi legislativi, che con tonalità diverse hanno individuato nell’eccesso di rigidità della regolamentazione dei rapporti di lavoro e del sistema di relazioni industriali il freno alla competitività dell’economia nazionale. Le riforme promosse negli ultimi 20 anni hanno condiviso l’esigenza di intervenire sul costo del lavoro, ritenuto eccessivo e causa dei bassi tassi di occupazione e della crescita della disoccupazione strutturale. Tuttavia, la scelta di perseguire politiche di moderazione salariale, attraverso interventi di riduzione del cuneo fiscale e di ampliamento dei margini di flessibilità per le imprese, ha avuto un impatto minimo sulla ripresa dell’occupazione e sulla riduzione della disoccupazione. Non fa eccezione a questa tendenza di lungo periodo la riforma promossa dal governo Renzi, nota come Jobs Act. Il contenimento del costo del lavoro, lungi dal favorire la dinamica della produttività e la competitività dell’economia nazionale, ha agito nella direzione di ridurre ulteriormente lo stimolo agli investimenti privati, accentuando il ricorso a forme di lavoro precario e a bassa qualificazione. L’esplosione dei voucher o “buoni lavoro” si inserisce in questo solco che ha visto i governi di centrodestra e centro-sinistra convergere su una politica di moderazione salariale, favorendo processi di sostituzione di lavoro stabile con forme di impiego precarie e prive di tutele.


In questo quadro, un’alternativa alle politiche degli ultimi decenni richiede in primis un rovesciamento di prospettiva, a partire dalla necessità di individuare interventi di stimolo all’occupazione e di contrasto alla precarietà, rimettendo al centro le esigenze dei lavoratori e delle lavoratrici rispetto a quelle delle imprese. Una considerazione che deve tenere conto delle trasformazioni del lavoro e delle implicazioni che queste assumono sulla formazione delle identità individuali e collettive, a partire dalla tensione tra tempi di lavoro e tempi di vita.

Segmentazione e automazione


La riduzione dell’orario di lavoro è stata al centro delle rivendicazioni del movimento operaio europeo dalla seconda rivoluzione industriale sino alla fase di espansione dell’economia continentale culminata con il compromesso sociale del trentennio glorioso. In Italia, il ciclo di lotte degli anni 60 e l’intensità del conflitto operaio nel biennio ‘69/70 stabilirono il passaggio dell’orario settimanale dalle 48 ore alle 40 ore attuali. Da quel momento il dibattito politico sindacale sulla redistribuzione del tempo di lavoro non ha riscontrato particolare interesse e l’attenzione pubblica sul tema è rimasta confinata quasi esclusivamente negli ambienti accademici, se si esclude la proposta delle 35 ore presentata dal partito della Rifondazione Comunista nel 1997. Non accadeva la stessa cosa in Europa, dove il dibattito sulla riduzione dell’orario di lavoro diveniva punto dirimente della strategia sindacale nella fase di ristrutturazione dell’economia europea all’indomani delle crisi petrolifere degli anni 70. In Francia e Germania, in particolare, la redistribuzione dell’orario di lavoro acquistava un ruolo determinante nel contenere gli effetti della recessione sull’occupazione industriale. Tuttavia, la richiesta di ridurre l’orario di lavoro non assumeva esclusivamente una dimensione difensiva, ma rientrava in una visione critica sulla fase di sviluppo del capitalismo contemporaneo, in cui cominciavano ad emergere fattori di crisi strutturale.

L’aumento della disoccupazione e la riduzione della domanda di forza lavoro delle imprese non erano più legati ad una crisi ciclica nel processo di accumulazione del capitale, che poteva essere risolta con misure espansive, ma si inseriva in un nuovo assetto dell’economia mondiale. In questa trasformazione si inserisce l’espansione degli investimenti produttivi nel settore terziario e l’impulso alla regolarizzazione dell’economia informale, attraverso una nuova politica di controllo dei flussi migratori. Si delineava la consapevolezza che il binomio tra crescita quantitativa della produzione e meccanismi di redistribuzione sociale era in procinto di crollare davanti alle fasi di ristrutturazione del capitale internazionale. La liberalizzazione del mercato finanziario consentiva alle imprese di aumentare i margini di profitto, mentre l’investimento nel campo della robotica e dell’automazione tecnologica comportava l’espulsione di quote sempre più ampie di forza lavoro dai settori a maggior valore aggiunto verso settori a bassa produttività marginale. Nello sviluppo di questa tensione si rintracciano gli elementi attuali di funzionamento del mercato del lavoro. La dialettica tra processi di automazione, con trasformazioni nella composizione della domanda di lavoro da parte delle imprese (ad alta intensità di sfruttamento) e segmentazione del mercato del lavoro, accompagnati da intensificazione dei ritmi e degli orari di lavoro, è all’origine  dell’aumento della disoccupazione e la riduzione delle tutele contrattuali di quote sempre più ampie di forza lavoro.  Nel vivo del processo di lavoro emerge un conflitto tra la robotizzazione di alcuni fasi della produzione  e l’aumento della durata oraria del lavoro umano.

L’investimento in tecnologie dell’automazione consente infatti alle imprese di utilizzare fattori di flessibilità nel processo produttivo, riducendo l’influenza dei lavoratori nella determinazione dell’organizzazione del lavoro e aumentando la loro dipendenza dal processo di lavoro. Decentramento produttivo, intermediazione fraudolenta di manodopera, diffusione di un sistema di cooperative spurie scandiscono il nuovo ciclo della produzione. Il paradigma del just in time si afferma nell’intera filiera produttiva, dove l’automazione di alcune fasi produttive,  funzionali alla necessità di velocizzare il movimento delle merci, richiede allo stesso tempo un’intensificazione dei turni di lavoro e un aumento delle ore lavorate. Un esempio della pervasività di questo processo viene dal settore della logistica, che rappresenta il cuore della nuova divisione internazionale del lavoro. Trattandosi di un segmento del processo produttivo strettamente legato all’industria, che collega la produzione della merce al consumo, la logistica vive direttamente la dialettica dell’intensificazione dei ritmi di lavoro e la velocità dello scambio commerciale.  Da una parte, i lavoratori costretti a lavorare per 10 o 12 ore al giorno con retribuzione spesso inferiori a quelle previste dai Contratti Nazionali e dall’altra le grandi corporations private che chiudono gli accordi commerciali utilizzando la rete e le piattaforme online. Inoltre, come è stato notato, in questo settore si producono le tensioni che riguardano direttamente il tempo di lavoro e il tempo di vita. Il primato del consumo come spazio destinato al tempo liberato dal lavoro diviene possibile solo intensificando i tempi e la durata del lavoro.

Altri esempi di questo nuovo modello di produzione e organizzazione del lavoro è rappresentato dal settore del delivery legato alla grande distribuzione. Come dimostrano gli ultimi casi venuti alla ribalta dell’opinione pubblica, tra cui quello dei fattorini di Foodora costretti a turni massacranti e retribuiti a cottimo. Nell’era della globalizzazione è la logistica metropolitana, caratterizzata da una componente rilevante di forza lavoro migrante, che diventa terreno di nuove lotte come quelle dei lavoratori delle catene di distribuzione di Pam e Carrefour nel bolognese.


L’estrazione di profitto attraverso la compressione del costo del lavoro diventa, quindi, il meccanismo di regolazione degli scambi commerciali e funzione della competitività dell’impresa. In questo quadro non desta stupore la crescita dei differenziali tra salari e profitti rispetto al reddito nazionale registrati nei paesi Ocse e in particolare in Italia dove  diventa il fattore principale dell’aumento delle diseguaglianze di reddito. Un dato connaturato, quindi,  al nuovo assetto delle relazioni di lavoro e alla piena disponibilità dell’impresa sulla domanda di lavoro.





1 commento:

  1. Magari riuscissero tutti a comprendere questa elementare "verità". Soprattutto per quelli come me che vengono tagliati fuori dal mondo del lavoro perché non più giovanissimi, ma allo stesso tempo senza requisiti per accedere a pensioni o altro perché ancora giovani. È una situazione oltremodo inconcepibile in un sistema che si fonda sul lavoro e il denaro. Dire che sono arrabbiata non rende affatto il mio stato d'animo.

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