mercoledì 23 marzo 2016

Italian Offshore: l'inchiesta sul rischio trivelle nei mari italiani


Articolo da DinamoPress

La miopia della strategia energetica del governo, l'austerity come paradigma generalizzato, i risvolti meno conosciuti dello Sblocca Italia. Un'inchiesta indipendente racconta i pericoli dell'estrazione del petrolio nei mari italiani. A cominciare dall'Adriatico. Tanti buoni motivi per votare sì al referendum del 17 aprile.

La Conferenza ONU di Parigi sui cambiamenti climatici e l’imperturbabilità di una corsa alle fonti fossili che riguarda l’Italia come il resto del mondo: il referendum del 17 aprile sulle trivellazioni offshore a pochi mesi dalla COP21 è un’antitesi su cui riflettere.

Innanzitutto, se un momento di massima espressione democratica viene definito “inutile” e tacciato di “sprecare denaro pubblico”, centrale è la riflessione sui disvalori di una classe dirigente sempre meno timorosa nel fare dell’austerity un baluardo, uno schema di ragionamento politico: il messaggio che si intende far passare è che la democrazia è uno spreco, l’efficienza economica diventa la misura di tutte le cose.

La corsa alle fonti fossili in Italia trova il suo momento culminante nell’approvazione del decreto Sblocca Italia. Che si tratti di modello energetico o, più in generale, di gestione dei territori, quel decreto ha posto al centro la questione del chi decide. E per lo Sblocca Italia è il mercato che decide, la necessità di attirare investimenti; vale per i permessi di ricerca ed estrazione petrolifera come per inceneritori, grandi opere, commissariamento delle bonifiche. Pantomima di una shock economy fatta di spesa pubblica a garanzia e supporto di un capitalismo straccione senza più neanche il fascino del rischio d’impresa. Deregolamentazione ambientale, sfruttamento dei territori e del lavoro, rischio sanitario, completano il quadro. 

Anche per gli idrocarburi, a livello globale, la corsa è il frutto dei meccanismi del mercato prima ancora che di decisioni politiche o bisogni reali. Si può dire che, tra il 2010 e il 2014, con il prezzo del barile rimasto stabile intorno ai 100 dollari, le compagnie hanno trovato convenienza nell’investire anche nello sfruttamento di giacimenti residuali dal punto di vista quantitativo e qualitativo. In questo settore, però, la messa in produzione, cui erano finalizzati gli investimenti, arriva dopo anni. Significa che, nonostante il crollo del prezzo del petrolio, i progetti verranno comunque portati a termine con l’esigenza di rientrare dei capitali investiti. Il che è possibile anche con il prezzo al barile ribassato, data la lunga durata delle concessioni che danno diritto allo sfruttamento delle risorse per 30-40 anni, tutto il tempo di remunerare i capitali investiti. Si prefigura quindi l’accentuarsi della sovrapproduzione già in essere, si continuerà a estrarre e ad aumentare le scorte, allungando il futuro fossile del modello energetico planetario.

Veniamo all’Italia, Paese in cui la spinta del mercato alle fonti fossili è stata accompagnata da precise scelte politiche. Con la conversione in legge del decreto Sblocca Italia, sembrava ultimato quel percorso normativo iniziato da anni e teso a creare le condizioni per attirare investimenti nel settore idrocarburi. La Strategia Energetica Nazionale approvata dal Governo Monti nel 2013 lo diceva chiaramente: «l’opportunità di mobilitare investimenti in questo ambito è stata limitata da un contesto normativo e da un processo decisionale che hanno rallentato o fermato molte iniziative nel corso dell’ultimo decennio». In quel documento venivano individuate alcune “criticità”: la complessità del sistema autorizzativo e le limitazioni per le attività offshore contenute in alcuni provvedimenti di tutela ambientale che le avevano interdette in molte aree, cancellando, a detta del documento, progetti per 3,5 miliardi di euro. Risolvendo questi “problemi”, la produzione di idrocarburi avrebbe potuto giocare un ruolo determinante nei 180 miliardi di investimenti attesi entro il 2020 nel settore energetico. Si passava poi a individuare le 5 zone ad elevato potenziale: Valle Padana, Alto Adriatico, Abruzzo, Basilicata e Canale di Sicilia. Esattamente quelle in cui si è focalizzata la corsa ai permessi.

Come tutto ciò possa armonizzarsi con gli impegni presi dal Governo italiano alla COP21 di Parigi non è molto chiaro. Esplicita è invece la strategia sottesa ai provvedimenti inseriti nello Sblocca Italia in materia di idrocarburi: per attirare investimenti in un Paese le cui riserve sono scarse dal punto di vista qualitativo e quantitativo è necessario delineare un quadro normativo e fiscale favorevole. Inizia così la corsa al petrolio nei mari italiani, quella che “Italian offshore”, documentario di inchiesta indipendente, premiato al festival Documentari Inchieste Giornalismi sta raccontando.

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Fonte: DinamoPress

Autore: 
Salvatore Altiero


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Articolo tratto interamente da DinamoPress


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